Una ricorrenza da non dimenticare: l'enciclica 'Pascendi dominici gregis'

Opinioni & Notizie su Pio X

 

Copertina_Pascendi.jpgIl prossimo 8 settembre si potranno celebrare 110 anni dalla pubblicazione dell'enciclica Pascendi dominici gregis, emanata da Papa san Pio X (1903-1914) l'8 settembre 1907 per condannare radicalmente quella complessa corrente di pensiero nota come Modernismo (1).

Questo documento, che all'epoca della sua diffusione ebbe una grandissima risonanza, è oggi pressoché dimenticato. Nessuna citazione della Pascendi dominici gregis appare, per esempio, nei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) o nel Catechismo della Chiesa Cattolica, sebbene riferimenti all'enciclica fossero nei documenti che prepararono il Concilio, sia fra i vota dei Padri latini, soprattutto italiani, inviati alla commissione ante-preparatoria, sia fra i testi approntati dalla sottocommissione De deposito, interna alla commissione teologica (2). Perfino la sua commemorazione a molti potrebbe apparire superflua, imbarazzante e finanche pericolosa. L'epoca conciliare, in definitiva, segna uno spartiacque riguardo alla ricezione della Pascendi dominici gregis: prima del Concilio era citata frequentemente e considerata un punto di riferimento per la teologia; dopo il Concilio, è stata dimenticata.

Superflua, perché essa rinvia a una stagione ecclesiale del tutto superata. Secondo alcuni, fra l’altro, certe istanze e affermazioni del Modernismo, biasimate nell'enciclica piana, sarebbero state serenamente e costruttivamente accolte nel vissuto ecclesiale e nell'insegnamento pontificio successivo, testimoniando così l’inopportunità dell’enciclica.

“Chi penserebbe oggi", scrive lo storico della Chiesa don Maurilio Guasco, "di considerare pericolosi certi scritti di Tyrrell [George S.J. 1861-1909] sul ruolo del laicato nella Chiesa, sulla sua necessaria emancipazione, sulla necessità di superare una concezione clericale della Chiesa per coglierne la natura di società invisibile guidata dallo Spirito Santo? Chi non si rende conto oggi che certe analisi e contributi dati da Loisy [Alfred (1857-1949)] all'esegesi e allo studio della figura di Cristo, alla necessaria anche se rischiosa distinzione tra il Cristo della storia e il Cristo della fede, sono molto più significativi e densi di quanto non fossero le povere risposte che troppi gli hanno offerto all'inizio del secolo? O chi non si rende conto di quanto fossero anticipatrici certe posizioni di Murri [don Romolo (1870-1944)] sull'autonomia della politica, sulla necessaria distinzione tra sfera religiosa e sfera politica, sul diritto del laicato a impegnarsi nella società civile senza essere sistematicamente sconfessato dall'autorità religiosa quando percorre strade difficili ma non per questo automaticamente eterodosse?” (3).

Secondo il teologo canadese Normand Provencher O.M.I. “L'interesse del Modernismo, e particolarmente quello di Loisy, non è tanto nelle soluzioni che propone quanto nei problemi validi che suscita e formula: il carattere relativo delle espressioni di verità, la verità della Scrittura, il rapporto fra la storia e il dogma, l’uso dei metodi critici in esegesi, lo sviluppo dei dogmi, l'ingresso della storia nella teologia. Dobbiamo riconoscere che più di un'affermazione, a quel tempo scandalosa e condannata, oggi è ammessa o tollerata. Il Modernismo tuttavia è un'impresa da pionieri non priva di goffaggini, estrapolazioni o errori” (4). E, ancora, lo storico Pietro Scoppola (1926-2007): “Si resta colpiti nel vedere oggi autorevolmente e, diremmo, ufficialmente ammessi nella Chiesa orientamenti e conclusioni critiche, specialmente per quanto riguarda l'esegesi biblica, che all'inizio del secolo avevano dato luogo alle più vivaci resistenze e talvolta a precise condanne” (5).

Imbarazzante, perché essa rappresenterebbe, alla pari dell'enciclica Mirari Vos di Papa Gregorio XVI (1831-1846) e del Syllabus del Papa beato Pio IX (1846-1878), un atto retrogrado e conservatore, tipico di quell'atteggiamento difensivo e integralista che per alcuni, dentro e fuori la Chiesa, ha costituito un grave errore e persino una colpa di cui chiedere più o meno apertamente perdono. L'enciclica, e in genere la politica antimodernistica di Papa san Pio X, avrebbero soffocato un movimento di riforma con un intervento tanto autoritario quanto, in una prospettiva più ampia, inefficace: “Gli interrogativi e i problemi che stavano sullo sfondo della crisi modernista vennero piuttosto rimossi. La crisi seguita al Vaticano II è in parte anche l'ipoteca della crisi verificatasi alla svolta del secolo, che non venne risolta ma soltanto soffocata artificiosamente” (6).

Esprimendo una certa perplessità sull'opportunità dell'enciclica, Giacomo Martina S.J. domanda: “Ci si può chiedere, infine, se i problemi sollevati all'inizio del secolo siano stati allora veramente risolti dagli interventi dall'alto, o se siano stati semplicemente soffocati, per riaffacciarsi poi in modo ugualmente vivo dopo qualche decennio” (7). Insomma, uno di quegli scheletri da nascondere negli armadi ben protetti dalla dimenticanza storica. Un certo numero di studiosi non nasconde la propria contestazione per la condanna del Modernismo, di cui l'enciclica Pascendi dominici gregis costituisce il momento più significativo. Essa sarebbe una sorta di ombra inquietante che si stende sul pontificato di Papa san Pio X. L'anonimo autore che introduce la raccolta delle encicliche del Pontefice per le Edizioni Dehoniane Bologna dichiara: “L'azione religiosa volta a rafforzare la fede e le virtù cristiane ebbe nel pontificato di Pio X un aspetto negativo che ancor oggi lascia confusi e turbati: la lotta contro il cattolicesimo riformista e il modernismo” (8). Quindi prosegue: “Vista retrospettivamente e alla luce dei molti, ma inascoltati, appelli al paziente discernimento che già allora si levarono all'interno della chiesa romana, la lotta antimodernista di Pio X impone amari interrogativi. Quesiti inevitabili, che non sono stati tacitati nemmeno quando il 3 luglio del 1951 papa Sarto fu proclamato beato da Pio XII [1939-1958] e poi quando il 29 maggio 1954 fu dal medesimo canonizzato” (9).

Pericolosa, perché costituirebbe un sostegno a un certo revisionismo intra-ecclesiale che vorrebbe tornare “indietro” e proporre atteggiamenti e orientamenti nostalgicamente preconciliari. Sgombro subito, a questo proposito, il campo dal rischio di un equivoco. Nego che vi sia una filiazione diretta della teologia e delle riforme del Concilio Ecumenico Vaticano II dal Modernismo. Non pochi autori, come andremo a esaminare, la ravvedono, in forma più o meno evidente, e pertanto esprimono il loro dissenso nei confronti della Pascendi dominici gregis, concedendole, al massimo della benevolenza, l'attenuante delle difficoltà del contesto storico. Nel corso delle riflessioni che proporrò mi colloco in un'altra prospettiva: il modernismo è stato un tentativo infelice di rinnovamento teologico ed ecclesiale, dannoso e pericoloso per la sua eterodossia. Il Concilio Ecumenico Vaticano II vanta altre paternità, da individuare in vivaci e profonde correnti di rinnovamento e di riforma, propiziate anche dall'enciclica. Insomma, il Modernismo non è stato un'anticipazione profetica repressa dall'enciclica. […] le guide intellettuali del concilio non sono stati gli esegeti, gli storici o i teologi della crisi modernista” (10). Lo stesso giurista e storico Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), che in gioventù frequentò i circoli dello storico delle religioni don Ernesto Buonaiuti (1881-1946), dichiarò: “Negherei che nel mutato clima dell'ultimo Pio XII, di Giovanni XXIII [1958-1963] e Paolo VI [1963-1978] debba vedersi un effetto ritardato del modernismo” (11).

Non intendo, comunque, né riaprire la questione intorno al Modernismo né affrontare il fenomeno del cosiddetto integrismo cattolico che accompagnò e seguì la pubblicazione dell'enciclica, pur consapevole che il giudizio sull'uno e sull'altro influiscono non poco sulla valutazione del documento di Papa san Pio X (12). Neppure intendo analizzare il contenuto dell'enciclica. Più modestamente, in occasione della ricorrenza storica, vorrei metterne in evidenza alcuni aspetti positivi e fornirne chiavi di lettura storico-teologiche tenendo conto di vari giudizi formulati da studiosi, di diverso indirizzo storiografico e teologico, in differenti momenti della sua ricezione, e contribuire, così, alla memoria di una ricorrenza che, a mio parere, non può e non dev'essere ignorato. Selezionare gli eventi ecclesiali e i documenti magisteriali da ricordare e quelli da dimenticare non è mai un'operazione ermeneuticamente neutra. Perdere la memoria dell'enciclica o prenderne le distanze fino a biasimarla è indice di un ben preciso approccio al cattolicesimo e al suo rapporto con la Modernità. Passato e presente s'intrecciano, come di consueto. Andiamo a cogliere, pertanto, alcuni elementi che rendono l'enciclica un documento degno di apprezzamento e gravido di moniti e ricco di suggerimenti per il cattolicesimo contemporaneo, chiamato a misurarsi con sfide e tentazioni di non lieve portata.

 

Preoccupazione pastorale

L'enciclica ha un solido spessore dottrinale. Questa sua caratteristica più rilevante non deve porre in oblio la pressante preoccupazione pastorale che ne è all'origine. Questa sollecitudine emerge già nel titolo stesso del documento Pascendi dominici gregis: “L'officio affidatoCi da Dio di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi” (13); e viene più volte ribadita nell'esposizione. A essa aveva fatto riferimento il Papa nell'allocuzione del 18 aprile 1907, indirizzata ai cardinali riuniti in Concistoro (14), che annunciava tanto il Decreto “Lamentabili” sui principali errori del riformismo o modernismo (15), del 3 luglio dello stesso anno, quanto l'enciclica. Nell'allocuzione concistoriale seguita all'emanazione dell'enciclica, lo stesso Pontefice mette in evidenza, con toni di dolorosa afflizione, la sua preoccupazione di buon Pastore che ha di mira solamente il giovamento spirituale dei fedeli. La cura pastorale è pure la chiave di lettura individuata dai redattori de La Civiltà Cattolica nel primo commento che la rivista pubblica al documento: “La voce del Vicario di Cristo con l'enciclica dell'8 settembre, da molti mesi annunziata, temuta, aspettata, si è levata infine energica e solenne a condanna di quei traviamenti che, sebbene vecchi come l’errore, si usurpano il vanto di novità e vanno sotto il nome generico di modernismo, come dire di un neo-cristianesimo opposto all'antico, e più conforme ai gusti dell'età moderna.

“La voce autorevole si è ripercossa già da un capo all'altro del mondo cattolico; e già suona ormai in tutte le lingue parlate dalla società cristiana, cioè dal mondo civile.

“E suona forte, severa. È voce di padre amareggiato da figli, che ha lungamente atteso, che ha sofferto per anni, che ha richiamato con voce paterna lungamente, invano: di un padre che vede anzi questi figli medesimi divenire ogni dì più riottosi, esiziali, per la dottrina e per gli esempi, ai minori fratelli. È voce di capo della famiglia cristiana che della sua indulgenza ha sentito menar vanto i colpevoli, come di conquista, e abusarne come di arma per combattere più liberamente le antiche dottrine, per fare propaganda più ardimentosa di novità, per scendere fino a scalzare i fondamenti della società, che egli regge, manomettere e dissipare il tesoro di verità, il deposito sacro, che egli ha da Dio affidato. È voce di pastore, il quale vede una parte del suo gregge correre ciecamente e trascinare altri, semplici ed incauti, ai pascoli avvelenati da cui egli ha obbligo strettissimo di ritrarli, per guidarli ai pascoli della salute. È voce di maestro e di giudice della fede e della dottrina, il quale scorge con dolore immenso la confusione delle idee disseminate largamente nelle file cattoliche da pochi ambiziosi, con le nebulose teorie e le gonfie parole di una scienza falsa, nemica della ragione non meno che della fede; quindi traviate le giovani menti del clero e del laicato, gettate le anime in braccio al dubbio, allo sgomento, e molte avviate al precipizio dell'incredulità da chi dovrebbe salvarle: ed egli maestro, egli giudice della fede, ha debito sacro di smascherare l'errore, di mostrarne le arti, gli avvolgimenti, i sofismi, di rialzare i caduti, di trattenere i vacillanti, di confermare i fratelli. È voce infine di legislatore, che vuole leggi non solo promulgate, ma osservate e con efficace sanzione confermate. È una voce illuminatrice e operatrice insieme, che non solo svela nella sua menzogna l'idra del modernismo, ma la colpisce a morte e l'atterra” (16).

Suprema lex salus animarum: l'espressione rammenta che anche gl'interventi dottrinali censori e i rigorosi provvedimenti disciplinari sono finalizzati al bene spirituale dei fedeli. L'enciclica non entra nell'agone polemico per ragioni di accademia o di sterile discussione. Secondo la mentalità teologica dell'epoca l'adesione deliberata a gravi errori teologici e la loro perniciosa diffusione all'interno del popolo cristiano mettono a repentaglio quanto sta a cuore a ogni autentico pastore cristiano: la salvezza eterna dei fedeli. In tal senso, la pubblicazione di questa enciclica da parte di Papa san Pio X non stupisce, considerando l'ansia pastorale che caratterizza il suo pontificato. Gl'interventi riformatori del Pontefice nell'ambito della liturgia, dell'istruzione catechistica, della formazione nei seminari non costituiscono un aspetto separato dalla condanna dottrinale del Modernismo: “In realtà, questo papa, così conservatore sotto molti punti di vista, fu nel medesimo tempo uno dei più grandi pontefici riformatori della storia, forse “il più grande riformatore della vita interna della Chiesa dopo il concilio di Trento” (17). Non esiste una schizofrenia fra il Papa buono e mite della comunione ai fanciulli e quello inquisitore e implacabile della Pascendi dominici gregis. Una stessa e identica personalità, consapevole della sua responsabilità pastorale, è all'origine dei vari interventi che si susseguono durante il suo pontificato.

“Pio X", scrive lo storico francese canonico Roger Aubert, "era uno spirito pratico, attento al pericolo di abbandonare la cosa certa per il suo miraggio, dotato del senso del particolare in tutte le cose. Tipico è il confronto fra le sue encicliche e quelle di Leone XIII [1878-1903]: la parte teorica si abbrevia [non nell'enciclica], i consigli minuziosi e le osservazioni dettate dall'esperienza prendono maggiore ampiezza […]. La coscienza, in certi momenti un po' opprimente, che aveva delle sue responsabilità, spiega anche il carattere molto autoritario del governo di quest'uomo, altrimenti tanto buono e affabile, che, secondo la parola di un confidente del cardinal Mathieu [François-Désiré (1839-1908)], “preparava alla Chiesa la dittatura che l'avrebbe salvata”, convinto com'era che il servizio di Dio e la salute delle anime imponessero un serio raddrizzamento in numerosi campi” (18). “Ma ciò che è più importante e più fondamentale", continua il canonico Aubert, "è che Pio X, apparso ai suoi contemporanei così poco moderno e così conservatore e che tale fu innegabilmente sotto certi punti di vista, è stato in realtà uno dei più grandi papi riformatori della storia. Ciò spiega d'altronde come durante i primi mesi del suo pontificato egli sia stato accolto con entusiasmo da molti di coloro che aspiravano a un rinnovamento e la cui prima impressione fu assai più quella di una rinascita religiosa che di un ritorno all'oscurantismo” (19).

“Il suo modo di governare la Chiesa", nota lo studioso monsignor Antonio Niero, "fu tutto impregnato da quella stessa nota pastorale che caratterizzò la sua vita di prete, tutta centrata su Cristo. Lo si vede già nella sua enciclica inaugurale E Supremi e nel suo motto, instaurare omnia in Christo. Il fine pastorale domina tutte le sue encicliche; spiega anche il suo frequente ricorso alle Costituzioni e ai Decreti per adattare la legislazione canonica, riformare la liturgia, estendere ai bambini la comunione frequente, raccomandare ai preti di badare soprattutto alla predicazione, all'insegnamento del catechismo, al reclutamento del clero, alla formazione teologica e spirituale nei seminari, allo studio della Scrittura. Il tutto converge in due documenti: l'esortazione Haerent animo e l'enciclica Pascendi(20).

“Pio X", conferma lo storico della Chiesa don Guido Zagheni, "contro il modernismo come pure in tutti i problemi incontrati nel suo pontificato, agiva nella consapevolezza di dover difendere i valori assoluti del cristianesimo, come il possesso di una rivelazione e la natura gerarchica della Chiesa per disposizione di Cristo, ma dati i tempi, lo faceva da un'angolatura che noi oggi potremmo chiamare “integrista”.

“[…] In questo senso vanno interpretati, unitariamente, tutti i suoi atti: la riforma del Codice, quella catechistica, quella liturgica, gli interventi in campo sociale e quelli per la difesa dell'integrità della fede. In questo è stato seguito dai suoi successori” (21). L'inquietudine pastorale è la chiave di lettura più adeguata per comprendere la severità con cui il documento si esprime, tanto nella sezione dottrinale quanto in quella disciplinare. Questa premura fa dunque apparire non solo comprensibile ma anche accettabile e apprezzabile la pubblicazione dell'enciclica che, proprio per questo suo obiettivo pastorale, era attesa e condivisa dalla gran parte dell'episcopato. Essa non fu un intervento monocratico accolto con freddezza e reticenze dai “satrapi” sottoposti alla tirannia del Papa, ma l'espressione suprema di un sentire comune, plurale, collegiale: […] fra la stessa gerarchia", osserva don Guasco, "vi era chi aveva chiara consapevolezza della situazione, della impossibilità per molti credenti di conservare la fede qualora fossero stati messi a confronto con le nuove scoperte e le nuove teorie, della drammatica incompatibilità tra crescita intellettuale e vita cristiana.

“La soluzione poteva essere una sola: ripensare radicalmente i metodi di formazione, la catechesi, i programmi di studio soprattutto dei seminari. Ciò avrebbe richiesto tempi lunghi e un lavoro che pochi erano in grado di affrontare. Fu quindi scelta un'altra strada, quella della lotta su tutti i fronti, fino alla totale sconfitta dei riformatori. Il fine era la salvezza della Chiesa: nessun metodo quindi parve inadeguato, o poco dignitoso” (22).

“Occorre però ricordare", nota don Silvio Tramontin, "in proposito come già negli ultimi anni del pontificato di Leone XIII […] moltissimi vescovi italiani, tra cui lo stesso card. Ferrari [beato Andrea Carlo (1850-1921)], si fossero pronunciati per la condanna del modernismo tanto che nel 1906, alla vigilia degli interventi pontifici, padre Giulio d'Arcole poté raccoglierli in un volume dal titolo 'Un allarme dell'episcopato italiano di fronte al riformismo religioso' (23).

Il card. Ferrari, arcivescovo di Milano, spesso contrapposto come pastore dotato di apertura mentale e moderazione rispetto alla chiusura e all'integralismo del Papa, già nel 1905 metteva in guardia dal Modernismo che definiva “una rifioritura del protestantesimo con quanto di peggio che si ammanta di una certa veste di pietà” (24). Fra i vescovi italiani intervenuti contro il Modernismo, già prima di Papa San Pio X, si annovera pure mons. Giacomo Maria Radini-Tedeschi (1857-1914), vescovo di Bergamo ed esponente, secondo la storiografia corrente, dell'anima liberale della Chiesa, ingiustamente emarginata durante il pontificato repressivo di Papa san Pio X (25). Alla luce di queste ultime considerazioni ci si rende conto che molti giudizi frettolosi sono di natura ideologica e non storica e che l'introduzione della dialettica conservatorismo-progressismo all'interno della Chiesa è sempre inadeguata, se non proprio dannosa.

Del resto, un altro dato conferma questa premura eminentemente pastorale. La ragionevole moderazione che, nonostante molti luoghi comuni, fu adottata dal Papa e dalle Congregazioni Romane nell'applicazione delle norme disciplinari previste dalla Pascendi dominici gregis e dal giuramento antimodernista, che a essa è intimamente associato e che fu richiesto a varie categorie di fedeli con il Motu Proprio “Sacrorum Antistitum” (26): “Le iniziative descritte ci mostrano un Pio X angosciato per la situazione della Chiesa, rigido nell'uso degli strumenti di repressione, talvolta anche esageratamente, ma anche disposto alla comprensione, quando si rendeva conto che aveva a che fare con uomini sinceri e devoti della Chiesa” (27). È proprio, infatti, della prudenza pastorale enunciare i princìpi, condannare gli errori e, successivamente, applicare alle situazioni concrete quanto va praticato pro bono animarum. Basti ricordare la dispensa dal giuramento accordato ai sacerdoti tedeschi che svolgevano attività di docenza nelle università dell'Impero tedesco. È questo un dato oggettivo che non giustifica dietrologie e un'interpretazione “politica”, addebitando a Papa san Pio X tendenze filogermaniche: “Contro queste norme [disciplinari] vi furono, particolarmente in Germania, forti resistenze, proprio da parte, come ora sappiamo, delle guide competenti del cattolicesimo tedesco, vale a dire la conferenza episcopale e i più importanti politici del partito di centro. Infatti, questi rigorosi metodi di sorveglianza mettevano in pericolo la teologia universitaria tedesca. Si trattava di una fase della lotta esistenziale del cattolicesimo tedesco, ora non più rivolta contro lo stato del Kulturkampf, ma contro l'integralismo della chiesa. Di fatto si manifestò qui, come in altri casi, una cautela della curia e di Pio X nei confronti della situazione tedesca, che appare sorprendente. Oltre al timore di pregiudicare il precario modus vivendi seguito al Kulturkampf […] un altro motivo è certamente anche che Pio X per il suo orientamento conservatore nutriva simpatie per la Germania del Kaiser in quanto potenza conservatrice, e perciò usava con essa riguardi insoliti. La conseguenza fu che in questo paese l'integralismo non ebbe effetti catastrofici come in Italia o in Francia” (28).

“A proposito del giuramento antimodernista si deve notare", secondo don Tramontin, "come, oltre all'eccezione per i professori universitari tedeschi, lo stesso Pio X abbia personalmente autorizzato Semeria [Giovanni, barnabita (1867-1931)] e Genocchi [Giovanni M.S.C. (1860-1926)] (e forse anche altri) a prestare questo giuramento con una serie di riserve mentali” (29).

“Non si dimentichi però come sia il segretario di Stato, mons. Merry del Val [y Zulueta, Rafael (1865-1930)], sia lo stesso Pio X siano più volte intervenuti presso i vescovi a moderare le intemperanze degli scrittori e della stampa integralista” (30).

Il Modernismo fu un movimento di élite composto da intellettuali, seri e motivati da nobili intenzioni, ma distaccati dalla compagine del popolo di Dio. Proprio per questo motivo illustri studiosi della Chiesa contemporanea, come gli storici Gabriele De Rosa e don Giuseppe De Luca (1898-1962), attenti osservatori dell'anima popolare del cattolicesimo italiano, hanno espresso disinteresse se non fastidio e biasimo per questo movimento (31). La mediazione fra i fedeli e i teologi era costituita dall'azione pastorale dei sacerdoti con cura d'anime. Il pericolo della diffusione delle idee moderniste all'interno dei seminari e, più generalmente, nella formazione sacerdotale scosse la sensibilità pastorale di Papa san Pio X. “Certamente la massa dei fedeli non era stata raggiunta, ma, almeno in Francia e in misura minore in Italia, quella parte del clero che era al corrente dell'evoluzione delle scienze religiose e un certo numero di giovani intellettuali cattolici erano stati toccati dal movimento. Insoddisfatti dell'insegnamento teologico del loro tempo e coscienti della necessità di un aggiornamento, essi si erano entusiasmati per i pionieri che avevano loro aperto la strada, ma, a differenza di alcuni di questi battistrada, non avevano mai neppure pensato di condurre la ricerca al di fuori della Chiesa” (32). La fede semplice e schietta della gente, minacciata dalla propagazione del Modernismo, imponeva pertanto una presa di posizione chiara e netta. In fondo, la condanna messa in atto dalla Pascendi dominici gregis si configura come uno di quegli episodi nella storia della Chiesa, tutt'altro che infrequenti, in cui il Magistero difende il sensum fidelium disorientato e aggredito da certa teologia che, proprio in ragione del suo isolamento intellettuale, perde di vista il suo ministerium veritatis. Letto in questa prospettiva, l’intervento di Papa san Pio X appare lungimirante e, oserei dire capovolgendo una categoria facilmente attribuita al Modernismo, profetico, se per profezia s'intende coraggiosa difesa della purezza della fede dei piccoli, degli umili, dei semplici. L'origine contadina del Pontefice, la sua lunga, energica, operosa militanza nell'azione pastorale, lo abilitavano a percepire con sensibilità le reali necessità della gente, dei fedeli, raramente coincidenti con le aspirazioni di alcuni circoli teologici. Interpretare, al contrario, il Modernismo come un'irruzione della sensibilità socio-politica di “intellettuali organici” all'interno della Chiesa per riavvicinare questa alle masse popolari sembra un'operazione ideologicamente preconcetta e goffamente forzata (33). Le chiavi di lettura del Modernismo sarebbero, secondo questa discutibile interpretazione, la rivoluzione proletaria, l'aspirazione a una fede biblicamente fondata, una cristologia priva di contenuto salvifico, il rigetto di un'ecclesiologia giuridica. Nel saggio di don Bedeschi il giudizio sull'enciclica è completamente negativo e il documento viene presentato come una sorta di “controrivoluzione” da parte dell'autorità ecclesiastica, incapace di comprendere le reali istanze di un cattolicesimo sociale vivo.

La preoccupazione pastorale giustifica pure la ripetuta accusa che l'enciclica muove al Modernismo di operare all'interno e dall'interno della Chiesa, in modo ambiguo, moltiplicando l'effetto devastante sul depositum fidei. Di qui l'esercizio del discernimento magisteriale per preservare e proteggere la fede ecclesiale (34).

 

Indispensabile chiarificazione dottrinale

Le precedenti considerazioni ci portano a mettere in evidenza un secondo aspetto positivo della Pascendi dominici gregis: essa contribuì a chiarire che cosa realmente fosse il Modernismo. Prima dell'enciclica esso appariva come un'idra sfuggente, cui mancava persino un'esatta denominazione. Occorreva inquadrarlo in un sistema e scoprirne le radici da cui si diramavano le differenti espressioni. L'enciclica svolse egregiamente questo compito e coprì così un vacuum insinuante e insidioso. Essa svolse un'opera di chiarificazione anzitutto dello status quaestionis e diede identità logica al Modernismo. Al principio dell'enciclica Papa san Pio X mette in evidenza questo carattere subdolo del Modernismo che, camuffato sotto le sembianze dell'appartenenza ecclesiale, demolisce la fede della Chiesa: “E a rompere senza più gli indugi Ci spinge anzitutto il fatto che i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, venerabili fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò che è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la chiesa, scevri di ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della chiesa, si dànno senza ritegno di sorta, per riformatori della chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gettano su quanto vi ha di più santo nell'opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo” (35).

In un altro documento, che illustra il profilo ideale del pastore, l'enciclica Editae saepe, emanata il 26 maggio 1910 per commemorare il terzo centenario della canonizzazione del card. Carlo Borromeo (1538-1584), il Papa condanna il falso riformismo intra-ecclesiale che avvelena la vita della Chiesa: “A queste cose non pensavano i riformatori, a cui si oppose Carlo Borromeo, presumendo di riformare a loro capriccio la fede e la disciplina; né meglio le intendono i moderni, contro cui abbiamo noi da combattere, venerabili fratelli. Anche costoro sovvertono dottrina, leggi, istituzioni della chiesa, avendo sempre sulle labbra il grido di cultura e di civiltà, non perché stia loro molto a cuore questo punto, ma perché con questi nomi grandiosi possono più agevolmente celare la malvagità dei loro intendimenti.

“E quali in realtà siano le loro mire, quali le loro trame, quale la via che intendono battere, nessuno di voi lo ignora, e i loro disegni furono già da Noi denunziati e condannati. Si propongono essi un'apostasia universale dalla fede e dalla disciplina della chiesa, apostasia tanto peggiore di quell'antica che mise in pericolo il secolo di Carlo, quanto più astutamente serpeggia occulta nelle vene stesse della chiesa, quanto più sottilmente trae da princìpi erronei le conseguenze estreme” (36).

“I modernisti", l'osservazione è del teologo gesuita Lebreton, "non hanno scritto un loro proprio manuale di teologia, dove sia possibile trovare l'espressione integrale e autentica delle loro concezioni religiose. L'enciclica è forse il primo documento dove sia contenuta la sintesi delle loro dottrine. Questa esposizione colpisce senza dubbio qualunque osservatore imparziale per il vigore della sua costruzione oltre che per la sicurezza e l'estensione delle informazioni che presuppone. Tuttavia, se ne vuole apprezzare l'esattezza, è chiaro che non si può, senza petizione di principio, prenderla come punto di partenza; è dalle opere dei modernisti che bisogna partire, e la difficoltà si ripresenta. Nei loro libri o articoli si troveranno sì delle tesi sparse di esegesi, filosofia, storia, ma si ha il diritto di organizzarle in sistema? L'esegeta si farà un punto di onore nel dichiararsi indipendente da ogni teoria filosofica e la filosofia perorerà la sua incompetenza in materia di esegesi. Un fatto tuttavia colpisce anche i meno attenti ed è che filosofi ed esegeti si sentono in comunione e si capiscono al volo” (37).

Il documento papale considera il Modernismo come un sistema coerente di premesse, d'idee, di conclusioni e ne analizza le diverse componenti passando in rassegna le varie anime del movimento, descritte attraverso la tipologia del filosofo, del credente, del teologo, dello storico, del critico, dell'apologeta e del riformatore (38): “E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché con siffatto nome sono chiamati costoro a ragione e comunemente) presentare le loro dottrine non già coordinate e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte luna dall'altra, allo scopo di passare essi per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati; gioverà innanzitutto raccogliere qui le dottrine stesse in un sol quadro, per passare poi a ricercare le fonti di tanto traviamento e a prescrivere le misure per impedirne i danni.

“E per procedere con ordine in una materia troppo astrusa, è da notare anzitutto che ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore; e queste parti sono tutte bene da distinguersi una ad una, da chi voglia conoscere a dovere il loro sistema e penetrare i princìpi e le conseguenze delle loro dottrine” (39).

La scelta di considerare il Modernismo come un sistema è stata spesso oggetto di critiche, fin dall'apparire dell'enciclica, da parte dei modernisti stessi, che affermavano di non identificarsi nella descrizione della Pascendi dominici gregis e, in tempi più recenti, da studiosi che hanno manifestato interesse e simpatia per il Modernismo, come don Bedeschi: “Naturalmente la prima obiezione che subito veniva mossa al documento papale da parte di quanti si sentivano più o meno indiziati, e che tuttora in sede storica può considerarsi valida, era d'aver presentato il modernismo come un sistema organico e articolato - cosa che invece costituiva il maggior merito per gli zelanti dell'ortodossia teologica - mentre in realtà lo componevano solo parziali aspirazioni, altrettanto disorganiche quanto contraddittorie, gorgoglianti nella cultura e nella personalità dei vari novatori oltretutto senza collegamento fra loro e spesso nemmeno amici. Perciò risultava quanto meno inesatta la presunta congiura di nemici della religione uniti, secondo l'enciclica, da un patto scellerato. Era vero semmai il contrario, che cioè una stessa crisi accomunava nella coscienza dei credenti (che tali volevano restare) consonanze di rifondazione a tutti i livelli del messaggio cristiano per calarlo secondo le rispettive esperienze nella nuova realtà sociale e culturale” (40).

“Questo speciale carattere", scrive il gesuita Martina, "costituisce insieme la forza e la debolezza dell'enciclica: la forza, perché, a differenza di quanto era stato fatto col Sillabo e con la Quanta Cura, il papa non si ferma ad una giustapposizione artificiosa di tesi, ma cerca il principio, l'anima comune a tutti gli errori; la debolezza, perché è discutibile, almeno sul piano storico, se il modernismo abbia avuto effettivamente quel carattere di unità e di sistematicità attribuitogli dall'enciclica” (41). A queste obiezioni faccio seguire un'interessante valutazione di uno studioso anglicano, che pure guardava al Modernismo con benevolenza: “Poiché veramente avevano una comune ispirazione e un comune scopo, non fu né innaturale, né ingiusto che l'autorità che li condannò li abbia uniti in una comune designazione e in una comune censura” (42). Questa valutazione echeggia la conclusione di un acuto interprete del Modernismo: “Il Papa in definitiva non ha voluto presentare che un modernismo schematico, di cui bisogna rinunciare a cercare da qualche parte nella realtà il tipo completo, ma che non è meno utile per scoprire il senso e la portata delle manifestazioni concrete che ne tradussero l'uno o l'altro aspetto” (43).

 

Il contenuto

Non intendo esaminare dettagliatamente il contenuto dell'enciclica, soprattutto della prima parte, la più estesa, che descrive appunto il quid est, in cui s'individuano gli errori professati dalle varie dottrine moderniste. Altri lo hanno già fatto (44). Sommariamente, questa la trama della Pascendi dominici gregis: “Essa inizia con un'esposizione riassuntiva del modernismo, del quale fa risalire gli errori particolari ad un errore filosofico fondamentale: l'agnosticismo, che nega la validità delle prove razionali nel campo della religione, e l'immanentismo, che fa sorgere la verità religiosa dalle necessità della vita. Questa filosofia porta direttamente ad una precisa teologia: la fede è la presa di coscienza di Dio operante nella coscienza umana; da essa nasce il dogma, che dunque si forma in uno sviluppo vitale grazie all'elaborazione di questo fatto sperimentale da parte dello spirito umano. Allo stesso modo i sacramenti derivano dal bisogno di “dare alla religione una forma visibile”; la Sacra Scrittura è una raccolta delle esperienze dei giudei credenti e dei primi discepoli di Cristo; la chiesa è il frutto della coscienza collettiva, e l'autorità ha soltanto il compito di esprimere i sentimenti degli individui. L'enciclica respinge inoltre la concezione modernistica della critica biblica e i metodi di un'apologetica puramente soggettiva, oltre che le richieste del modernismo riformatore; alla fine contiene indicazioni per l'adozione di misure pratiche contro la diffusione del male, specialmente nei seminari” (45).

Propongo ulteriori considerazioni. Anzitutto, va messa in evidenza la validità di questa scelta che, a differenza di altri interventi censori del Modernismo, coglie il principio generatore, gli elementi di sintesi, il quadro complessivo. Solamente in questa visione d’insieme poteva apparire la pericolosità di quel movimento. “Esso rappresenta una novità in quanto, a differenza di precedenti condanne, non tenta di condannare soltanto singole affermazioni, ma di colpire il sistema alla radice e di offrire una sintesi riassuntiva di ciò che il “modernismo” è veramente. Il modernismo, che secondo l'enciclica è il “collettore e il rendez-vous di tutte le eresie”, viene qui definito come “immanentismo”, ossia riduzione di fede e religione alla soggettività dell'uomo. La fede proviene, dunque, secondo i modernisti, non più dall'esterno, attraverso la rivelazione di un Dio che trascende il mondo e lo chiama alla storia ad uscire dalla sua immanenza, rivelazione presentata dal magistero della Chiesa. Ogni oggettivazione nella Sacra Scrittura, nel dogma ecc. è, secondo i modernisti, solo espressione esteriore successiva dello sviluppo immanente della storia umana, della coscienza umana. In fondo non esiste alcuna autorità che possa opporsi d'imperio al soggettivismo. Un'autorità esterna può aiutare la coscienza soltanto a rientrare in sé stessa” (46).

“Se poi", osserva lo studioso del Modernismo Jean Rivière, "mediante la composizione e la fusione scolastica delle parti, si penetra fino al nocciolo, ha scritto il protestante J. [ohannes] Kübel [1873-1953], Geschichte des kath. Modernismus [Storia del Modernismo cattolico], si vede che l'enciclica ha presentato molto esattamente le idee principali dei diversi gruppi modernisti […]. È d’altra parte sufficientemente chiaro, di primo acchito, che il modernismo descritto dal documento pontificio costituisce un sistema, non solo anticattolico, ma distruttore del Cristianesimo e della religione stessa. Condannandolo, l'enciclica Pascendi ebbe come risultato di dissipare gli equivoci di una situazione particolarmente confusa, e di contrapporre in toto i principi costitutivi del soprannaturale cristiano, alla più radicale volatilizzazione che li abbia forse mai minacciati” (47). Effettivamente l'enciclica ebbe il grande merito di cogliere questa forza distruttrice degli autori individuati come appartenenti a un unico movimento d'idee. Ciò è riconosciuto da un eminente teologo contemporaneo, attento a ricostruire il fondamento della teologia e del suo sviluppo storico nel dato soprannaturale della Rivelazione, appunto messo in discussione dagli autori modernisti. “è superfluo far notare con quanta fedeltà questo quadro [quello disegnato dall'enciclica] ricostruisca le diverse affermazioni trovate in Sabatier [Auguste (1839-1901)], Loisy e Tyrell. Indubbiamente in quegli autori, esse non hanno i contorni netti che attribuisce loro l'enciclica. Rimane però il fatto che, nell'insieme, i tratti vi corrispondono. Il documento pontificio le ha riuniti e confrontate per scoprirne gli elementi dissolvitori” (48).

La sintesi era maggiore della somma delle singole parti. Proprio quest'ultima considerazione mi porta a tener conto dell'opinione, diffusa in ambito storiografico, secondo la quale è esistito un Modernismo “cattivo” e un altro “buono”, il primo meritevole delle censure della Pascendi dominici gregis, il secondo, al contrario, superficialmente aggregato al primo e ingiustamente associato alla condanna. Conseguentemente, l'opzione effettuata da parte di Papa san Pio X di ridurre a sistema unitario e coerente le espressioni negative e quelle positive del Modernismo sarebbe risultata un errore, tanto più grave in quanto avrebbe soffocato un sano e provvidenziale movimento di riforma. Altri, ancora più severamente, rimproverano all'enciclica di aver condannato una realtà del tutto inesistente. La Pascendi dominici gregis, in altri termini, come don Chisciotte che, lancia in resta, si scaglia contro i mulini al vento. “In altre parole, non è sempre facile scoprire fino a che punto l'enciclica descriva il pensiero effettivo degli autori più rappresentativi del movimento, o condanni una posizione diversa; mentre restano ineccepibili le censure degli atteggiamenti e delle dottrine esposte nella Pascendi, resta storicamente da vedere se il documento possa applicarsi a tutto il movimento riformista senza distinzione, come sembrerebbe fosse intenzione del papa” (49).

La discussione su questo punto è certamente complessa. Tuttavia, a mio parere, l'enciclica colse nel segno, quando volle interpretare il Modernismo come un insieme organico. E questo per due motivi. Anzitutto, perché, al di là delle intenzioni e del contributo dei singoli esponenti del movimento, per quanto autonomi nel loro operare, sussisteva realmente un fondamentale minimo comune denominatore: l'accoglienza del pensiero “moderno” nato, o cresciuto e maturato, dal criticismo del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) e dall'idealismo del filosofo pure tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). I rappresentanti del Modernismo, che l'enciclica intende censurare, erano, volontariamente o involontariamente, affetti da questa adesione, per il fatto stesso di voler operare una riconciliazione del cattolicesimo con la Modernità. L'abbraccio, però, risultava mortale, come gli esponenti stessi dell'idealismo italiano misero lucidamente in evidenza. Molto interessante il contenuto di un articolo de La Civiltà Cattolica, che recensisce la valutazione dell'enciclica da parte dei filosofi razionalisti e idealisti dell'epoca. Fra loro spicca la valutazione del filosofo Giovanni Gentile (1875-1944): “è pur certo che il cattolicesimo non potrà mai, per quanto si sviluppi, diventare la negazione di sé medesimo nel senso in cui vorrebbero il Tyrrell e il Loisy. Di questa verità così ostica ai modernisti, spiacenti a Dio e ai nemici suoi, c'è un senso sicuro da un capo all'altro dell'Enciclica tanto discussa dell'8 settembre 1907; contro la quale tutte le aspre critiche sorte nel campo modernistico stanno a dimostrare l'ingenuità dominante nella situazione spirituale che è propria di questi modernisti; e il caos filosofico, in cui è avvolta la mente degli scrittori, che fanno coro alle polemiche dei maggiori, nelle riviste come Nova et vetera. In verità l'enciclica Pascendi dominici gregis è una magistrale esposizione di tutto il modernismo; e l'accusa di sfiguramento (secondo il termine dell'enciclica stessa) che l'enciclica avrebbe fatto di esso modernismo, è gridio di paperi, come avrebbe detto il Carducci [Giosuè (1835-1907)]. L'autore dell'enciclica ha visto fino in fondo e interpretato esattamente, da critico emunctae naris, la dottrina giacente nelle esigenze filosofiche, teologiche, apologetiche, storiche, critiche, sociali dell'indirizzo modernista; e devo anche dire, a scandalo dei paperi razionalisti, che l'ha anche criticata da un punto di vista superiore; e che le risposte perciò che si sono fatte non hanno nessun valore scientifico, benché ne abbiano, senza dubbio, uno storico di altissimo grado. Le Simples réflexions del Loisy, devo pur dirlo, filosoficamente fanno una meschina figura accanto alla filosofia che parla nell'enciclica” (50).

Così anche il filosofo Benedetto Croce (1866-1952): “Il modernismo pretende di distinguere il contenuto reale del dogma dalle sue espressioni metafisiche che egli considera come cosa del tutto accidentale, allo stesso modo che sono accidentali le varie espressioni del linguaggio in cui può venire tradotto un medesimo pensiero. E questo paragone è il primo e sommo sofisma dei modernisti… Liberissimi i modernisti di trasformare i dogmi secondo le loro idee. Anch'io uso di questa libertà. Soltanto io ho coscienza, facendo questo, di essere fuori della Chiesa, anzi fuori di ogni religione; laddove i modernisti si ostinano a professarsi non solo religiosi, ma cattolici” (51). E ancora: “Che se poi per salvarsi dalla necessaria conseguenza dell'assunto principio i modernisti, simpatizzando con i positivisti, con i pragmatisti e con gli empiristi di ogni risma, addurranno che essi non credono al valore del pensiero e della logica, cadranno di necessità nell'agnosticismo e nello scetticismo. Dottrine queste, che sono conciliabili con un vago sentimento religioso, ma che ripugnano affatto ad ogni religione positiva” (52).

Papa san Pio X ebbe ragione, quando scelse come punto di partenza dell'analisi del Modernismo o, se si vuole, dei vari modernismi, la radice filosofica e la professione, implicita o esplicita, di agnosticismo e d'immanentismo. Sono pertanto in disaccordo con il giudizio negativo sull'enciclica, espresso da don Bedeschi: “Più grave […] l'obiezione sul piano ideologico circa l'assolutizzata identificazione della fede con la filosofia aristotelico-tomista e la totale disattesa o il ripudio di ogni problematica esistenziale delle filosofie volontariste e della scienza psicologica emerse nel frattempo. Sicché a qualcuno parve di trovare perfino, nel documento, da un lato un eccessivo spazio lasciato alla metafisica nel trattamento di quel plusvalore costituito dalla trascendenza, dall'altro una scarsa conoscenza dello status studiorum. Insomma, paradossalmente, l'accusa di razionalismo rivolta ai modernisti veniva a ritorcersi sull'enciclica. Senza aggiungere, come faceva notare Semeria d’accordo con altri, che era stata totalmente capovolta “la posizione programmatica modernista. Questa protestava di andare dalla storia alla filosofia, dall'accertamento dei fatti alla critica delle idee. Mentre la Pascendi affermava e dimostrava che in realtà il Modernismo andava dalla filosofia alla storia e ch'esso era una vasta applicazione del soggettivismo filosofico” (53).

In secondo luogo, nell'ambito della Rivelazione cristiana e del suo approfondimento riflesso, ossia della teologia nelle sue varie articolazioni, vige il principio dell'analogia, tout se tient. Il Modernismo, per quanto poliedrico, sinuoso, frastagliato, si componeva di voci e di contributi che si richiamavano e s'integravano. L'enciclica, con eccellente capacità di giudizio, comprese questa intima e, quasi, invisibile cospirazione, nel senso etimologico del termine: “Venivano intaccate l'origine divina della Chiesa e il ruolo della gerarchia, considerata semplice garante di quanto la comunità nel suo insieme va elaborando. Si affermava la relatività di qualsiasi concezione ecclesiologica, il valore puramente simbolico delle affermazioni dogmatiche, l'evoluzione storica di ogni dottrina, soggetta quindi a radicali cambiamenti, e non solo a una più profonda e ampia comprensione. Per questo la gerarchia non indicava specifiche eresie da condannare, ma considerava errato tutto il sistema e i modelli concettuali che lo fondavano.

“Vi era dunque in gioco tutto un universo mentale, andavano in crisi le basi della scienza ecclesiastica più diffusa. Tutti i settori venivano coinvolti: dal mondo della teologia a quello dell'esegesi, dalla storia agli stessi fondamenti dell'etica. Si verificava anzi una radicale modifica dello stesso concetto di scienza, dei rapporti tra ricerca e riflessione teologica” (54).

Per questo motivo, l'enciclica, i suoi redattori, il Pontefice, che con la sua autorità la pubblicò, mostrano un elevato grado d'intelligenza teologica. Lo stesso giudizio, spesso attribuito a Papa san Pio X, di essere stato un papa di mediocre valore intellettuale, comparato al suo predecessore, va ripensato. “Se a san Pio X piaceva presentarsi come “un buon parroco di campagna” messo sulla cattedra di Pietro, tutti quelli che lo hanno avvicinato sono rimasti colpiti dalla sua intelligenza, una intelligenza certamente “più robusta che sottile” secondo il cardinale Baudrillart [Alfred (1859-1942)], ma chiara e precisa, servita da “un buon senso che toccava la genialità”, nel giudizio di Aristide Briand [1862-1932], e che faceva dire al principe von Bülow [Bernhard Heinrich Karl Martin (1849-1929)]: “Conosco un gran numero di sovrani e di uomini di stato, ma raramente ho trovato in uno di loro una comprensione così penetrante della natura umana e delle forze che reggono il mondo e la società moderna”. Quest'uomo di cui gli avversari denunciavano l'oscurantismo, non mancava affatto di cultura: trovava il tempo di leggere un bel numero di opere, c'informa Merry del Val nei suoi ricordi, e il suo gusto artistico era molto sicuro” (55).

Ben diversi i giudizi citati dalle espressioni triviali e irriguardose di un “anonimo” esponente del Modernismo italiano, da individuare probabilmente in Buonaiuti, nei confronti del Pontefice, all'indomani della Pascendi dominici gregis. “Tutta la grettezza d'animo degli infimi strati sociali […] tutta la ignoranza della più vecchia generazione clericale, cresciuta e alimentata fra gli anatemi al movimento di modernità; tutto l'astio degli incolti contro gli uomini della scienza; tutto il disprezzo incolto di chi non sa, per lo sviluppo e la ricchezza dell'intelligenza; dimorano nell'animo di questo buon parroco di campagna, strappato da un singolare colpo di fortuna alle occupazioni vicine e alle conversazioni innaffiate di un buon vino e di facili barzellette, della solitaria canonica, e portato a reggere il governo della più grande organizzazione religiosa” (56). Il tenore di queste espressioni fa riflettere; non esiste, nella Chiesa, una teologia scientifica e sapienziale apprezzabile, se pronunciata con livore e con disprezzo per la figura del Sommo Pontefice: un'ulteriore conferma della bontà della Pascendi dominici gregis, che individuò e mise in evidenza atteggiamenti estremamente pericolosi per il vissuto ecclesiale.

 

Capolavoro di teologia

La Pascendi dominici gregis è un capolavoro di teologia. Le stesse dimensioni del documento - composto da 21.375 parole - e la solida impalcatura strutturale non possono che suscitare l'apprezzamento. L'enciclica argomenta in modo serrato e coerente, adoperando una ricchissima fondazione patristica e magisteriale. Una sorta di polifonia si leva a difesa e a illustrazione della fede cattolica contro le posizioni del Modernismo. Alcune pagine dell'enciclica, nel mostrare l'inconciliabilità della Rivelazione cristiana con alcune delle teorie proposte dai modernisti, rimangono insuperate per chiarezza di esposizione. È stato osservato pure che la documentazione, su cui essa basa la sua disamina degli errori, è puntuale e vasta, e proprio questa approfondita conoscenza degli autori e delle loro idee giustifica, ulteriormente, la scelta di presentarle organizzate in un sistema: “La “sistematizzazione” delle idee moderniste fu criticata soprattutto da A. Loisy. Tuttavia non si può negare che la parte didattica dell'enciclica basava i suoi giudizi su un'approfondita conoscenza della materia” (57). L'articolazione del pensiero non disdegna di ricorrere a un incalzare d'interrogazioni quasi a suscitare con arte maieutica il riconoscimento della verità, oscurata dagli assunti dei modernisti. Cito uno di questi passaggi: “Inoltre i modernisti non hanno nulla da sperare di meglio dalla loro dottrina del simbolismo. Perché se tutti gli elementi che dicono intellettuali non sono che puri simboli di Dio, perché non sarà un simbolo il nome stesso di Dio o di personalità divina? E se è così, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, e avremo aperta la via al panteismo. E qui similmente, cioè al puro panteismo, conduce l'altra dottrina dell'immanenza divina. Giacché domandiamo: siffatta immanenza distingue o no Dio dall'uomo? Se lo distingue, in che differisce dunque una tale dottrina dalla cattolica? O perché mai rigetta quella della esterna rivelazione? Se poi non lo distingue, eccoci di bel nuovo col panteismo. Ma di fatto l'immanenza dei modernisti vuole e ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall'uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza deduciamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo” (58).

Opera di eccellente teologia, dunque, l'enciclica, che si caratterizza pure per una pregevole fisionomia letteraria, qualità non secondaria anche per le opere di teologia magisteriale e, vorrei dire, di teologia tout court. Il Modernismo è presentato, come già ricordato, attraverso la teoria di sei tipi, dal filosofo al riformatore. Questa scelta genera una sorta di dialogo fra il modernista che enuncia le sue tesi e il Pontefice che ribatte. A volte il testo rasenta l'uso della prosopopea. Soprattutto non mancano passaggi in cui felice è l'uso dell'ironia che, mentre rende più convincente il pensiero, fa diventare piacevole la lettura. Proponiamo due esempi: “Eppure, chi li ascolti ad oracolare dei loro studi sulle Scritture, per i quali hanno creduto di scoprirvi sì gran numero di incongruenze, è spinto a credere che nessun uomo prima di loro abbia sfogliato quei libri, né che li abbia scandagliati per ogni verso una quasi infinita schiera di dottori, più valenti di loro per ingegno, per scienza, per santità di vita. I quali dottori sapientissimi, tanto furono lungi dal trovare alcunché da riprendere nei libri santi, che anzi più ringraziavano Dio, che si fosse così degnato di parlare con gli uomini. Ma purtroppo i dottori nostri non attesero allo studio delle Scritture con quei mezzi, onde son forniti i modernisti!” (59). E ancora: […] perché, se queste esperienze [l'esperienza del sentimento religioso così come descritta dai modernisti] hanno sì grande forza e certezza, non l'avrà uguale quell'esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato? Solo questa esperienza sarebbe falsa e ingannevole? La massima parte degli uomini ritiene fermamente e sempre riterrà che col solo sentimento e con la sola esperienza senza guida e lume dell'intelletto non si potrà mai giungere alla conoscenza di Dio. Dunque resta di nuovo o l'ateismo o l'irreligione assoluta” (60).

Questa lettura teologica non esime certamente lo storico dall'individuare la fisionomia spirituale e dottrinale dei singoli rappresentanti del movimento modernista. “Appare sempre più chiaro che la definizione del modernismo a noi data dall'enciclica “Pascendi”, se rispecchia un sistema unitario totalmente astratto da essa definito con piena ragione come incompatibile con la fede cattolica, fornisce però, purtroppo, allo storico un quadro del tutto inadeguato. E ciò non soltanto perché il teologo valuta documenti e forme da un punto di vista assoluto, mentre lo storico deve studiarsi di capire gli uomini nella loro reale complessità, nei loro moventi profondi e nelle loro istanze spirituali” (61). D’altra parte, il lavoro dello storico, autonomo e indispensabile, non impedisce al teologo di cogliere, come abbiamo sottolineato, la bontà dell'analisi e della valutazione data dalla Pascendi dominici gregis di considerare l'anima comune del Modernismo. Il rispetto dei diversi campi d'indagine aiuterà entrambi, storico e teologo, a dare un giudizio equilibrato dell'enciclica, privo soprattutto di quella passione “ideologica” che è all'origine di tante obiezioni nei confronti del documento piano. Del resto, anche lo storico non può fare a meno di riconoscere la tempestività e l’urgenza dell'enciclica nel contesto di un attacco corale alla Chiesa e alla fede cristiana che il Modernismo, se nolente, anziché arginare e placare rendeva ancora più pericolosamente deleterio e rovinoso. Gl'inizi del secolo scorso coincidono con la stagione più violentemente anticlericale della massoneria, potente e pervasiva, con l'aggressione anarchica e socialista al cristianesimo, con le ambiguità paganeggianti di certo nazionalismo, con la diffusione del verbo positivista, superbo nella sua autosufficienza scientista. “Per apprezzare con obiettività la sua intransigenza e la sua severità, bisogna reinquadrare gli avvenimenti: in presenza dei progressi spettacolari del liberalismo antireligioso, del socialismo materialista e dello scientismo orgoglioso, che volevano promuovere l'avvento di un mondo nuovo, dove l'uomo fosse emancipato da Dio, sembrava fortemente necessario mettere in guardia i cattolici, che si trovavano in un atteggiamento di soggezione di fronte alla sicurezza dei loro avversari, contro la tentazione di cercare troppo frettolosamente un compromesso, prima di avere sufficientemente decantato le rivendicazioni dello spirito moderno per coglierne con sicurezza ciò che esse contenevano di accettabile e di fecondo” (62).

Lo storico poi individua nell'enciclica il punto di arrivo e di partenza di una lunga serie d'interventi del Magistero, pensoso delle conseguenze di certi sviluppi teologici. Questi interventi divengono reiterati proprio a partire dal Pontificato di Papa san Pio X e mostrano nella Pascendi dominici gregis l'esito di una strategia a lungo ponderata e gradualmente attivata: “A partire dal 1903 gli interventi pontifici si succedettero con una costanza che rivela una netta visione delle mete da raggiungere e una ferma volontà nell'attuare il piano prefisso. Nel dicembre 1903 come abbiamo visto, fu condannato Loisy; nel 1904 venne stabilita la visita apostolica di tutte le diocesi italiane; a partire dal febbraio 1905 si iniziò la serie delle risposte della commissione biblica (tredici in nove anni), in senso fortemente conservatore. Poco dopo (1907) Pio X sottolineò l'autorità della commissione, le cui decisioni obbligavano in coscienza i fedeli. Nel 1906 si ebbe la condanna del Santo, il romanzo di Fogazzaro [Antonio (1842-1911)]. Ma l'anno decisivo fu il 1907. Alla fine di aprile la Congregazione dell'Indice ammoniva i redattori della rivista “Il Rinnovamento”; in luglio, il decreto Lamentabili condannava 65 proposizioni, desunte per lo più dalle opere del Loisy, relative all'autorità del magistero ecclesiastico, all'ispirazione della S. Scrittura, all'oggettività ed immutabilità dei dogmi, alla divinità di Cristo, all'origine divina della Chiesa e dei sacramenti” (63).

Da questo punto di vista la posizione dottrinale e disciplinare dell'enciclica di Papa san Pio X è in continuità con quelle del suo predecessore e del suo successore, anche se nella vulgata storiografica si afferma il contrario e si contrappone all'«illuminismo» di Papa Leone XIII e alla mite moderazione di Papa Benedetto XV (1914-1922) l'oscurantismo inquisitorio di Papa san Pio X. Né bisogna dimenticare che sussiste una continuità ideale fra l'enciclica Quanta Cura e il Syllabus di Papa beato Pio IX (64) e il decreto Lamentabili e la Pascendi dominici gregis. Così i redattori de La Civiltà Cattolica all'indomani dell'8 settembre 1907: “Ha parlato il Papa con pienezza di dottrina e opportunità tale che l'enciclica di Pio X dell'8 settembre 1907 farà nella storia della Chiesa degno riscontro con quella di Pio IX dell8 dicembre 1864, con la quale ha tanti punti di somiglianza; indirizzata luna e l’altra contro gli errori enormi di un naturalismo contrario alla fede ed alla ragione, alla religione ed alla scienza, alla Chiesa ed alla società” (65). E anche il Syllabus, come la Pascendi dominici gregis, a una lettura più obiettiva e meno ideologica appare meritevole di apprezzamento e non del vituperio e del sarcasmo, da cui ancora oggi è quasi universalmente circondato (66).

Nei confronti dell'esegesi biblica già durante gli ultimi anni del pontificato di Papa Leone XIII si moltiplicano gl'interventi censori della Curia Romana (67). Non si può sostenere con certezza che il Pontefice non avrebbe mai assunto lo stesso provvedimento di Papa san Pio X, come altri affermano con sicurezza che mi pare eccessiva: “Leone XIII si astenne fino alla sua morte dal prendere severe misure che avrebbero potuto far nascere il sospetto di una condanna sommaria del movimento biblico teologico in progresso” (68). La condanna dell'Americanismo, risalente al 1899 (69), va messa in relazione con il Modernismo, come non pochi studiosi hanno evidenziato, giungendo a definirlo “premessa pratica al modernismo” (70). Già l'enciclica denuncia: “In fatto di morale [i modernisti] danno voga al principio degli americanisti, che le virtù attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l'esercizio, con prevalenza su queste” (71). Altri documenti, emanati da Papa Leone XIII, sono abbondantemente citati nell'enciclica di Papa san Pio X, come Officiorum ac Munerum, la bolla con la quale si aggiornava la legislazione che regolava la censura e la proibizione dei libri (72). Nell'enciclica programmatica Ad Beatissimi Apostolorum Principis, Papa Benedetto XV esortava fermamente a porre fine alle controversie interne alla Chiesa, associate anche all'accanimento dei cosiddetti integristi, fenomeno, questo, solo parzialmente legato all'enciclica Pascendi dominici gregis (73).

Questa sollecitazione, resa possibile e necessaria proprio per la chiarezza della condanna degli errori del Modernismo, non ne costituisce certo una ritrattazione. Al contrario, anche la prima enciclica di questo Pontefice contiene una severa riprovazione del Modernismo, espressa in termini non dissimili dal linguaggio della Pascendi dominici gregis, se non ancora più drastici: […] alcuni, confidando nel proprio giudizio in spregio dell'autorità della chiesa, giunsero a tal punto di temerità che non esitarono a voler misurare con la loro intelligenza perfino le profondità dei divini misteri e tutte le verità rivelate, e a volerle adattare al gusto dei nostri tempi. Sorsero di conseguenza i mostruosi errori del modernismo, che il Nostro predecessore giustamente dichiarò “sintesi di tutte le eresie” condannandolo solennemente […]. Né soltanto desideriamo che i cattolici rifuggano dagli errori dei modernisti, ma anche dalle tendenze dei medesimi, e dal cosiddetto spirito modernistico; dal quale chi rimane infetto, subito respinge con nausea tutto ciò che sappia di antico, e si fa avido e cercatore di novità in ogni singola cosa, nel modo di parlare delle cose divine, nella celebrazione del sacro culto, nelle istituzioni cattoliche e perfino nell'esercizio privato della pietà” (74).

Nel descrivere il Modernismo in modo sistematico e unitario, l'enciclica acquisì un altro merito: “mise i paletti” e consentì così alla riflessione teologica di sviluppare le istanze positive di cui i modernisti si erano fatti, impropriamente, portatori. Il Magistero conciliare e pontificio, anche quando “definisce”, ha essenzialmente una funzione “apofatica”: afferma quanto non è coerente con la fede cattolica. Erige argini, traccia confini, addita un itinerario da percorrere. Dopo la pubblicazione dell'enciclica e un ragionevole tempo di ricezione e, direi, d'incubazione - protratto dalle tragiche vicende storiche - le istanze sollevate dai modernisti, purificate, furono ricuperate e valorizzate. Già nel 1929, Jean Rivière, acuto interprete francese del modernismo e sincero estimatore dell'enciclica, affermava: “Condannando gli errori estremi del modernismo, il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi hanno segnato per l'avvenire i punti limite che un cattolico non dovrebbe superare. La disapprovazione però inflitta a delle soluzioni notoriamente funeste, comporta di suo l'obbligo di sostituirle con una più adeguata. Ai filosofi, storici e teologi cattolici, incombe ora questo compito nei loro ambiti rispettivi, se, non contenti di rifiutare il modernismo, hanno a cuore di prevenirne efficacemente il ritorno” (75).

Il Modernismo è un fenomeno ricorrente nella storia della Chiesa e della teologia: spesso i maîtres à penser sono eterodossi e la diffusione delle loro idee suscita una risposta ortodossa che, proprio a partire dalla sfida lanciata, chiarisce e approfondisce il dato rivelato. Il Magistero si colloca come un momento di purificazione e di orientamento all'interno di questo processo dialettico. Come tale va letta l'enciclica e la sua provvidenziale e tempestiva comparsa. Va pure messo in evidenza che il Modernismo è un episodio di uno sviluppo teologico-dogmatico in atto all'interno della Chiesa ben prima del suo sorgere. Nel Modernismo sono “impazzite” legittime aspirazioni alla riscoperta e all'approfondimento di temi di teologia speculativa e pratica che avevano già trovato cittadinanza nell'alveo ecclesiale. La Pascendi dominici gregis ne ha condannato gli errori, ma non ha inteso bloccare il progresso di quel movimento di rinnovamento teologico già carico di promesse. Volentieri riporto e mi associamo alla considerazione di John Joseph Heaney S.J., secondo cui “la difficoltà nell'accertare l'influenza dei pensatori modernisti sulla Chiesa successiva deriva dal fatto che questi uomini si alimentavano e si nutrivano di certe tendenze legittime che si manifestavano nella Chiesa contemporanea, quali l'idea della fede come incontro personale, il crescente apprezzamento dell'esperienza religiosa e dell'antropologia spirituale, le più approfondite ricerche sulle relazioni fra psicologia e religione, il ritorno alla tradizionale accentuazione del senso del mistero, la rinnovata consapevolezza della funzione pastorale della teologia, una valutazione meno meccanica del ruolo dell’autorità, la crescente intuizione dello sviluppo del dogma, la sottolineatura della natura organica della Chiesa e dell'importanza del laicato, un rispetto maggiore della scientificità nello studio della Sacra Scrittura e nelle scienze naturali, un nuovo inquadramento delle relazioni Chiesa-Stato, l'appello ad abbandonare un ghetto culturale. Molte di queste intuizioni, però, erano già state trovate nelle opere di studiosi come Möhler [Johann Adam (1796-1838)], Newman [card. John Henry (1801-1890)], Blondel [Maurice (1861-1949)] e altri pensatori ortodossi, che, prima del sorgere del Modernismo, avevano iniziato a studiare questi problemi. Con il ritorno dello spirito dell'autentico tomismo, la scena era stata preparata, sembra, per il loro fruttuoso sviluppo. È difficile vedere come certi valori, che si dice siano venuti dal Modernismo, non siano invece stati impediti nel loro sviluppo dentro la Chiesa proprio dalla comparsa del Modernismo e dalla medicina robusta che si ritenne necessario usare per sradicarlo” (76).

Il pericolo di una ripresentazione degli errori in cui il Modernismo incorse non fu per certo definitivamente superato con l'enciclica. Essi rappresentano, infatti, una perenne tentazione nella storia della teologia e del vissuto ecclesiale, quando sono in gioco tematiche di vasto respiro e di nevralgica importanza per la definizione del dogma e per l'organizzazione della forma ecclesiale, come accadde durante la vicenda modernista. Rileggendo l'enciclica, senza conoscerne autore e data di pubblicazione, più volte si sarebbe indotti a pensare che il documento descrive e stigmatizza posizioni teologico-ecclesiali contemporanee e, più generalmente, diffuse nel pensiero religioso attuale. Il Modernismo, in fondo, altro non è che un episodio di quella permanente tensione che attraversa tutta la storia dell'evangelizzazione e dell'inculturazione. È quanto metteva in evidenza, già nel 1918, il filosofo austriaco e studioso di teologia Friedrich von Hügel (1852-1925): “Mi sembra che ci siano due oggetti e due materie realmente e sostanzialmente distinte che sono state denominate “modernismi”. Il primo è uno sforzo permanente, mai concluso, sempre da ricominciare prima o poi e più o meno, per tentare di esprimere la vecchia fede, le sue verità e le sue permanenti speranze, in accordo con quelli che appaiono i migliori e più solidi elementi della filosofia, dell'insegnamento e della scienza degli ultimi tempi e anche di tutti gli ultimi tempi. L'altro “modernismo” è un problema strettamente circoscritto, realmente finito e terminato, sono i gruppi o i vari tentativi, buoni, cattivi, indifferenti, che si sono mescolati in modo variabile, che si produssero in vista di questa o quella espressione o interpretazione sotto il pontificato di Pio X, e che avevano senza dubbio già cominciato durante gli ultimi anni di Leone XIII, ma che si sono esauriti alla morte di Tyrrell e quando Loisy si è allontanato dal contenuto positivo per il quale aveva lottato” (77). La stessa distinzione viene operata dal filosofo francese Jean Guitton (1901-1999): “Il modernismo ci appare come il caso particolare di un sistema più largo, come una forma di pensiero che ritornerà sempre nel corso della storia del cattolicesimo, quando lo spirito vorrà fondare la sua fede sullo spirito del tempo invece d'integrare lo spirito del tempo nella sua fede” (78).

L'evangelizzazione è inculturazione e questa comporta sempre un duplice movimento: dal Vangelo verso la cultura e dalla cultura verso il Vangelo. Il Modernismo si ridusse a quest'ultimo dinamismo e fallì nel suo scopo. Sotto questo punto di vista l'enciclica rappresenta un monito sempre valido, una memoria proiettata verso il futuro, soprattutto in un'epoca, come l’attuale, in cui la Chiesa è impegnata sul fronte missionario dei nuovi areopaghi. Un altro autore, pur ponendosi sulla linea di una valutazione positiva del Modernismo e, dunque, di riprovazione dell'enciclica, riconosce la permanente possibilità di un fenomeno-Modernismo all'interno della Chiesa: “Il Modernismo non può essere ridotto agli elementi di deviazione messi in rilievo dall'enciclica Pascendi, in opposizione al pensiero cattolico di sempre: al contrario, ha senso e realtà solo nel movimento stesso del pensiero cristiano che non finisce mai di render conto dei suoi avvenimenti fondatori” (79).

In altra prospettiva, il Modernismo testimoniò quanto sia faticosa la fedeltà della Chiesa alla sua missione di lievito della società in stagioni di profonde mutazioni epocali. L'enciclica, nel suo genere letterario, accompagnò quest'opera impegnativa e impedì che tale azione, condotta da ingegni generosi ma immaturi, si smarrisse e si disorientasse. L'inizio del terzo millennio sembra non meno agitato da profonde mutazioni dei princìpi del secolo scorso. Il ricordo della Pascendi dominici gregis e del suo ruolo appare pertanto non privo d'interesse nel mostrare un'attitudine e un servizio magisteriale attesi in epoche di grandi trasformazioni sociali e, di conseguenza, ecclesiali. “A questo livello di analisi che corrisponderebbe all'approccio più largo del modernismo, troviamo senza dubbio il problema, già antico, tante volte affrontato, mai risolto, di avvicinare la Chiesa e la società. E s'imporrebbe l'analogia con altre epoche di cambiamento culturale, scientifico e socio-politico. Nel momento stesso in cui appare, il parallelismo invita a precisare questi termini: quale Chiesa? E quale società? Affermare dell'una e dell'altra che sono in pieno cambiamento non fa che spostare la questione: quale cambiamento? Il modernismo è immerso in una mentalità estremamente diffusa” (80).

Sarebbe ingenuo pensare che il travaglio teologico possa condurre esclusivamente al progresso e all'approfondimento del dato rivelato in piena fedeltà a esso. L'equilibrio rischia sempre di essere rovesciato, soprattutto se viene a mancare la funzione chiarificatrice e orientatrice del Magistero. Anche nei decenni successivi all'enciclica sono state denunciate ricadute nella mentalità modernistica, e se, come appare, la maggior parte dei laboratori di rinnovamento teologico del secolo XX si sono mossi, sostanzialmente, su linee, creative sì, ma scevre di fraintendimenti e di disfacimento della fede della Chiesa, un contributo fu dato pure dalla tanto dimenticata enciclica di Papa san Pio X. Drammaticamente la crisi, che ha aggredito la Chiesa Cattolica all'indomani del Concilio Ecumenico Vaticano II, annovera fra le sue cause anche un neo-Modernismo, dimentico delle indicazioni della Pascendi dominici gregis. Un importante pensatore francese, per nulla tacciabile di nostalgie preconciliari, Jacques Maritain (1882-1973), nel 1966 affermò: “Oggi, nei confronti della febbre neo-modernista molto contagiosa almeno nei circoli detti intellettuali, il modernismo di Pio non era altro che un modesto raffreddore da fieno” (81).

 

Il progresso degli studi cattolici

Un altro rilievo, frequentemente sollevato contro il valore dell'enciclica, è quello di aver bloccato l'attività scientifica all'interno della Chiesa. Con la sua tipica moderazione, che non gl'impedisce di essere critico nei confronti dell'enciclica, il gesuita Martina conclude: “Una delle conseguenze più gravi della reazione antimodernista fu il ritardo degli studi ecclesiastici, che solo lentamente riuscirono a superare le posizioni in cui erano stati bloccati all'inizio del secolo, la mancanza di un'autentica cultura cattolica nel mondo laico, almeno in Italia” (82).

In termini ancora più crudi, secondo gli esponenti di questa opinione, l'enciclica rese la Chiesa e, soprattutto il clero, più ignoranti, arroccati nella sterile conservazione di un patrimonio culturale obsoleto, insignificante e sterile. La repressione radicale condotta da Papa san Pio X in persona, o da uomini che agivano su suo mandato, con l'accordo esplicito o con il silenzio approvante, instaurò un clima di paura, soprattutto nei seminari e nelle università pontificie, provocando con ciò un ritardo negli studi teologici e biblici. È lunga la lista di quanti pronunciano per questo motivo il loro j’accuse contro l'enciclica. “Questa reazione implacabile soffocò certamente nel loro inizio un certo numero di tendenze pericolose, ma essa ebbe d'altra parte un effetto nefasto e in parte sterilizzante nei confronti della scienza cattolica durante gli ultimi anni del pontificato di Pio X” (83). “La Pascendi diventava così", sentenzia don Guasco, "un vero spartiacque nella storia del clero italiano. I preti formati negli anni di Leone XIII, provocati dall'apertura ai nuovi problemi del mondo, convinti di dovere diventare i protagonisti di grandi trasformazioni sociali, avrebbero conservato per tutta la vita una forte curiosità intellettuale, una certa libertà di spirito, una costante attenzione verso le novità e i cambiamenti. Quelli formati nel 1907, nel clima di restaurazione introdotto nei seminari, avranno tutte le caratteristiche contrarie: paura delle novità, pochi stimoli intellettuali, spesso una vera e propria diffidenza verso lo studio” (84).

“Da questo documento pontificio", scrive don Bedeschi, "è forse venuto l'impulso più forte per quel disinteresse verso la cultura religiosa da parte del clero in genere, che perciò stesso lo ha distolto dalle correnti contemporanee della spiritualità per gettarlo a capofitto nelle competizioni e nell'attivismo politico-sociali, che comportano meno rischi e incontrano più favore ai fini del mantenimento dell'ordine esistente” (85). Per quanto discutibile sia la tesi di questo studioso, secondo cui la Pascendi dominici gregis avrebbe provocato disinteresse culturale nel clero, la formazione di un clero laborioso, operoso nell'attività pastorale, disponibile a non trascurare la dimensione socio-politica della cura animarum, fu un evento molto positivo, provvidenziale, se si considera quanto sarebbe avvenuto in Europa e nel mondo negli anni successivi all'enciclica. A mio parere, questo giudizio negativo va rigettato. L'enciclica in sé e la politica ecclesiastica all'interno della quale si colloca, al contrario, favorirono la ripresa degli studi in genere e della teologia positiva in specie. I fatti parlano da sé. Nell'enciclica il Pontefice afferma: “I nemici della chiesa certamente ne abuseranno per ribadire la vecchia accusa, per cui siamo fatti passare come avversi alla scienza e al progresso della civiltà. A tali accuse, che trovano smentita in ogni pagina della storia della chiesa, alfine di opporre alcunché di nuovo, è Nostro consiglio di accordare ogni favore e protezione a un nuovo istituto, da cui, con l'aiuto di quanti fra i cattolici sono più insigni per fama di sapienza, ogni forma di scienza e di erudizione, sotto la guida e il magistero della cattolica verità, sia promossa” (86).

In realtà questo Istituto, concepito, non venne mai alla luce per difficoltà organizzative. “Il progetto era stato caldeggiato dai cardinali Rampolla [Mariano del Tindaro (1843-1913)], Mercier [Desiré-Félicien-François-Joseph (1851-1926)] e Ratti [Achille (1857-1939)] e fatto proprio anche dal Pontefice. I suoi membri però furono scelti in maniera troppo unilaterale (mons. Duchesne [Marie Olivier (1843-1922)] ad esempio non lo si volle includere). Presidente era stato nominato il card. Rampolla, che però pregò il papa di esonerarlo, segretario generale Ludwig von Pastor [1854-1928], lo storico del papato” (87). Ciò nonostante, il fatto stesso di averlo previsto è indizio di un’intenzionalità che trovò realizzazione in altre esperienze. Nel 1907, lo stesso anno della pubblicazione della Pascendi dominici gregis, fu istituita la commissione biblica incaricata di rivedere il testo della Vulgata, affidando l'impresa ai benedettini. Questa scelta sa d'intelligenza metodologica. All'applicazione del metodo storico-critico, sommariamente e ingenuamente adottato dai modernisti, che lo avevano mutuato dall'esegesi protestante, andava anteposta o perlomeno accompagnata una basilare ricognizione del testo. Il 1909 è l'anno della fondazione del Pontificio Istituto Biblico, ben presto integrato nella prestigiosa Università Gregoriana.

Nella lettera apostolica con la quale Papa san Pio X istituì questo centro di studi, destinato ad avere un ruolo di fondamentale importanza nella storia del pensiero cattolico, leggiamo: “Fine del Pontificio Istituto biblico sia di essere un centro di alti studi della sacra Scrittura nella città di Roma per promuovere il più efficacemente possibile la dottrina biblica e tutti gli studi connessi secondo lo spirito della chiesa cattolica” (88). A esso verrà presto riconosciuto il diritto di rilasciare i gradi accademici in Scienze Bibliche, precedentemente riservato alla Pontificia Commissione Biblica. Non sfugga questo particolare: la “scienza biblica” viene così riconosciuta come frutto del lavoro di un istituto d'insegnamento, di ricerca, di pubblicazione scientifica e non di una commissione disciplinare. Le due funzioni, quella censoria e quella di promozione culturale, sono concepite come complementari. La raccomandazione allo studio della Bibbia viene rivolta accoratamente ai sacerdoti nell'Esortazione “Haerent animo” al clero cattolico nel 50° della propria ordinazione sacerdotale, del 4 agosto 1908, suggerendo una lettura “spirituale” della Sacra Scrittura (89). Anche in tempi recenti l'insufficienza del metodo storico-critico e la necessità di un ricupero della lettura “spirituale” della Bibbia è oggetto di non pochi richiami. Nella lettera apostolica Quoniam in re biblica sull'ordinamento degli studi di Sacra Scrittura nei seminari, del 27 marzo 1906, viene sollecitata una lettura integrale della Scrittura: tutta la Bibbia e tutto della Bibbia (90). In definitiva, gli studi biblici non vengono certo bloccati dalla Pascendi dominici gregis. Non ci sembra, pertanto, legittimo avallare la posizione di quanti ritengono l'enciclica parte di un progetto globale di rinnovamento della cultura cattolica, abbia decretato l'embargo degli studi biblici.

I modernisti, che pure avevano coltivato con grande interesse lo studio della teologia positiva, avevano frettolosamente ricavato conclusioni dogmatiche erronee. S'imponeva pertanto un lavoro di ricerca nell'ambito dello studio delle fonti e dei metodi per un adeguato approccio a esso. L'enciclica ne parla esplicitamente: “Aggiungiamo qui, sembrarCi altresì degni di lode coloro che, salvo il rispetto alla tradizione, ai padri, al magistero ecclesiastico, con saggio criterio e con norme cattoliche (ciò che non sempre da tutti si osserva) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia autentica. Certamente alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che in passato” (91).

L'enciclica favorisce, pertanto, un'impressionante ricchezza di studi, di pubblicazione di riviste e di centri culturali. Già alla fine degli anni 1920 il bilancio che si poteva tracciare era molto positivo: “Non c'era miglior risposta al modernismo che riprendere, nello spirito della Chiesa, i problemi da lui sollevati e così disastrosamente risolti. Questo fu l'obiettivo degli studi teologici, storici, esegetici ai quali non cessarono di darsi, con un ardore accresciuto dalla lotta, gli Instituts Catholiques e la École biblique di Gerusalemme. Andrebbe qui citata tutta la bibliografia dell'epoca: anche in questi anni difficili, la storia della scienza ecclesiastica è tutta a suo onore” (92). L'elenco delle iniziative rigogliosamente fiorite è davvero sorprendente. Con onestà ed equilibrio, il canonico Aubert, non sempre del tutto benevolo nei confronti della Pascendi dominici gregis, dichiara: “Il bilancio fu tuttavia meno negativo di quanto a volte si dice. Nel campo stesso dell'esegesi in cui, nonostante la fondazione nel 1909 del Pontificio Istituto biblico, il lavoro serio fu in gran parte insterilito, si possono rilevare alcune pregevoli realizzazioni: la fondazione nel 1908 delle “Biblische Zeitfragen” (Questioni bibliche del giorno), una raccolta di volgarizzazioni di alto livello e, nel 1912, delle “Alttestamentliche” e “Neutestamentliche Abhandlungen” (Saggi sull’Antico e sul Nuovo Testamento), rispettivamente dirette da J[ohannes]. Nikel [(1863-1924)] e M[ax]. Meinertz [1880-1965], come pure la pubblicazione della “Théologie de S. Paul” del P.F[erdinand]. Prat sj [1857-1938] e del commento del P. Lagrange [O.P., Marie-Joseph (1855-1938)] al Vangelo di S. Marco (1911). In patrologia e nella storia dei dogmi, la Francia può cominciare ad annoverare qualche nome accanto a quelli di un Ehrhard [Albert (1862-1940)], di un Bardenhewer [Otto (1851-1935)], di un Rauschen [Gerhard (1854-1917)]: J[oseph]. Tixeront [1856-1925], discepolo del Duchesne, pubblica tra il 1905 e il 1912 una Histoire des dogmes che non è priva di meriti per quel tempo, e il P.J. Lebreton fa opera di pioniere col suo volume Origines du dogme de la Trinité (1910). Lo stesso dicasi per J[oseph]. Lebon [(1879-1957)] a Lovanio col suo Monophysisme sévérien (1909). Il crescente interesse per le antiche letterature cristiane orientali è indicato dalla ripresa che nel 1912 le Università Cattoliche di Lovanio e di Washington fanno del “Corpus scriptorum christianorum orientalium” lanciato nel 1902 da J[ean].-B[aptist]. Chabot [1860-1948]. Nel 1907 la Görres Gesellschaft apre una “Sektion für Altertumskunde” (Sezione per le scienze dell’Antichità), sotto la direzione di Mons. Kirsch [Johann Peter (1861-1941)], destinata a promuovere gli studi d'archeologia cristiana, classica e orientale, e specialmente i problemi posti dallo sviluppo delle ricerche di storia delle religioni.

“Infine nel 1912 F[ranz]. J[osef]. Dölger [1879-1940] inaugura una nuova cattedra di “Allgemeine Religionsgeschichte und Vergleichende Religionwissenschaft” (Storia universale delle religioni e scienza comparata delle religioni) dalla quale egli si dedica a ricercare in qual misura il pensiero e i primitivi riti cristiani abbiamo subito l’influsso del paganesimo circostante. Un anno prima, mentre in Francia appariva sotto la direzione del P. Huby [Joseph S.J. (1878-1948)] il primo manuale cattolico di storia delle religioni, Christus, il P. W[ilhelm]. Schmidt S.V.D. [1868-1954], fondatore della rivista “Anthropos” (1906), aveva riunito a Lovanio, in collaborazione col P. Bouvier SJ [Émile (1906 -1985)], la prima settimana cattolica d’etnologia religiosa e un altro tedesco, J[osef]. Schmidlin [1876-1944], aveva fondato lo “Zeitschrift für Missionswissenhschaft” (Rivista di scienza delle missioni) e il primo istituto cattolico di missiologia.

“La storia della liturgia è brillantemente rappresentata dal tedesco Baumstark [Anton (1872-1848)], dagl'inglesi Bishop [Edmund (1846-1917)] e Fortescue [Adrian (1874-1923)], dai benedettini francesi Cabrol [Fernand O.S.B. (1955-1937)], Férotin [Marius (1855-1914)] e Leclerq [Henri (1869-1945)]. Quest'ultimo lancia nel 1907 il Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, seguito nel 1912 dal Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques. La comparsa di nuove riviste è un altro segno dell'attività scientifica durante quegli anni difficili. Riviste storiche come la “Zeitschrift für schweizerische Kirkengeschichte” (Rivista di storia della Chiesa svizzera) (1907), la “Revue d’histoire de l’Église de France” (1910), l’”Archivum franciscanum historicum” (1908) e l’”Archivio iberoamericano” (1914), ma anche riviste propriamente teologiche: “Theologie und Glaube” (Teologia e fede) (1909) organo del Philosophisch-theologische Lehranstalt (Istituto di filosofia e teologia) di Paderborn, ma soprattutto la “Revue des sciences philosophiques et théologiques” (1907) dei domenicani francesi di Saulchoir e le “Recherches de science religieuse” (1910) dei gesuiti della provincia di Parigi” (93).

Oltre a quanti si dedicarono agli studi di teologia positiva, il canonico Aubert menziona pure figure che si distinsero nella teologia speculativa, anche se il suo giudizio, su questo punto, è meno entusiasta: […] bisogna ricordare soprattutto due nomi: il P. de Grandmaison SJ [Leonce (1868-1927)], che durante questo periodo difficile contribuì con i suoi articoli moderati e sensati […] a guidare l'opinione pubblica disorientata tra gli scogli del modernismo e dell'integrismo, senza tuttavia andare al fondo dei problemi; ma soprattutto il P. Gardeil OP [Ambroise (1859-1931)], un maestro che, malgrado i suoi limiti, appare sempre più come un precursore e il cui influsso, limitato da principio alla Francia, si è esteso in seguito, grazie ai suoi discepoli ben oltre i suoi confini. La sua opera culmina in due lavori di metodologia apologetica e teologica che rimasero classici per molto tempo: La crédibilité et l’apologétique […], che fu oggetto di animate controversie, specie da parte dei seguaci di Blondel, e Le donné révèlé et la théologie (1910), in cui egli mirava a riprendere l'opera di M[elchor]. Cano [1509-1560] in funzione dei problemi dell'inizio del secolo XX” (94). All'elenco delle iniziative culturali presentato dal canonico Aubert andrebbero pure aggiunte le riviste antimoderniste che, pur con altra angolazione, furono vivaci strumenti del movimento culturale suscitato dalla Pascendi dominici gregis. Colpisce l'estensione geografica di questa produzione: “Dopo la pubblicazione della Pascendi sorsero nuove riviste antimoderniste, come La foi catholique di Bernard Gaudeau [S.J. (1854-1925)] e La critique du libéralisme di Emmanuel Barbier [S.J. (1851-1925)] nel 1908 in Francia, cui si aggiunse dal 1912 La Vigie, in Belgio la Correspondance catholique dell'avvocato Jonckx [Alfred (1872-1953)], De Maasbade di M. A. Thomson in Olanda, la Mysl Katolicke in Polonia e ancora Rome in Francia” (95).

 

 Il rinnovamento teologico

Quest’operoso e serio fervore culturale ha poi permesso, insieme ad altri fattori, il rinnovamento teologico degli anni successivi. Movimento biblico, patristico, liturgico sono fecondati da questa seminagione scientifica. In questa prospettiva, la Pascendi dominici gregis, e non il Modernismo, è stata promotrice di cultura religiosa. Questo sollecito e diuturno impegno scientifico non fu confinato nelle torri d’avorio degli specialisti. Esso rifluì nell’insegnamento seminaristico e, attraverso la preparazione dei pastori, raggiunse, in modo adeguato, i fedeli. La Civiltà Cattolica, commentando le decisioni assunte dalla Santa Sede in materia di formazione seminaristica in Italia, metteva in evidenza: “Che nel corso teologico prendano larga parte gli studi positivi di esegesi biblica, di patristica, di storia ecclesiastica e dell’archeologia con la storia dell’arte, è un provvedimento che risponde alle esigenze dei tempi, dal quale non dovranno patire gli studi della teologia dogmatica, anzi cavare nuove fonti di argomenti” (96).

Non va infatti dimenticato che il pontificato di Papa san Pio X è caratterizzato da una speciale attenzione alla formazione dei futuri sacerdoti. Nel clima antimodernista dell’enciclica, i seminari, soprattutto in Italia, furono riformati e il risultato fu un elevamento della qualità degli studi. Come già accennato, la formazione culturale dei sacerdoti non subì un regresso con l’enciclica e gl’interventi a essa associati ma, piuttosto, un incremento, da non sopravvalutare, ma neppure da misconoscere. “Pio X avviava la costituzione di seminari regionali in cui affluivano gli alunni delle sedi diocesane in condizioni difficili. Tale provvedimento, tra l’altro, aveva anche un’altra conseguenza particolarmente significativa. Il personale direttivo dei seminari regionali veniva nominato da Roma […]. La conseguenza più significativa sarebbe stata la nascita di un modello unico di sacerdote nelle varie regioni: stessa disciplina, stessi programmi di insegnamento, eventuale intercambiabilità anche dei superiori e professori. Ne conseguiva una forte sprovincializzazione dei seminari, un arricchimento culturale, la possibilità di nominare docenti all’altezza del loro compito” (97).

Tale formazione non ignorava ma, al contrario, valorizzava anche la cultura “profana” per abilitare al confronto, su basi solide, con quella Modernità che l’enciclica non voleva passivamente assorbita dal pensiero cattolico. Significativa è, a tale proposito, la discussione che ebbe luogo in Italia sull’opportunità che nei seminari minori fossero accolti e insegnati i programmi in vigore nelle scuole equivalenti dello Stato. Papa san Pio X intervenne affinché vi fosse questo adeguamento: “I sostenitori dei programmi ministeriali ritenevano giusto che il futuro prete, prima degli anni della teologia, acquisisse quegli strumenti culturali che erano propri della società in cui sarebbe stato chiamato ad agire” (98). Desta perplessità, pertanto, l’accusa, spesso ripetuta e alla quale abbiamo accennato, che la Pascendi dominici gregis sia stata una sorta di condanna a morte della cultura cattolica e una riduzione a minorità intellettuale del clero. Gli anni a seguire avrebbero dimostrato come il clero italiano, formatosi nei seminari voluti da Papa san Pio X, secondo quell’indirizzo antimodernista descritto nell’enciclica, abbia rappresentato una componente significativa della cultura italiana.

Ai modernisti si può e si deve riconoscere il merito di aver agitato i problemi, in un modo, però, del tutto inadeguato e dannoso per l’integrità della fede del popolo cristiano. Non condivido perciò la posizione di quanti tendono a incoronare i modernisti, per altro persone degne di stima e di rispetto, con la corona dei martiri della verità e a biasimare l’enciclica come un atto di miopia intellettuale e di tirannia disciplinare. “Se le improvvide e frettolose enunciazioni da un lato possono in parte spiegare la reazione implacabile di tutto il fronte tradizionalista che si muove sotto la direzione di una gerarchia non sempre illuminata, dall’altro nulla tolgono alle felici intuizioni che poi rappresentano, tutto sommato, un meraviglioso momento creativo del cattolicesimo europeo o quanto meno italiano quale non si è più visto se non dopo diversi decenni e - si potrebbe anche aggiungere timidamente - per merito di alcuni uomini o di fermenti che affondavano in quel lontano sottosuolo” (99). Più sfumato, ma sulla stessa linea, Scoppola: “La rinuncia momentanea a talune convinzioni scientificamente acquisite, ha contribuito a far progredire la Chiesa nel suo complesso, assai più di certi irrigidimenti e ribellioni aperte. Forse quei sacrifici sono stati il prezzo necessario di una maturazione e di uno sviluppo unitario e concorde” (100). Del resto, l’autentico progresso dottrinale è accompagnato, nella storia della Chiesa, dalla santità, da cui è pure distinto. Fra gli autori modernisti nessuno è stato canonizzato. Papa san Pio X, autore della Pascendi dominici gregis, lo fu. Il card. Merry del Val, intimo collaboratore del Papa nell’azione antimodernistica, è servo di Dio. Segnalo pure che fra gli autori, oggetto delle censure antimoderniste, eccellono per virtù proprio quanti accolsero con spirito di fede e di ubbidienza le direttive del Magistero e a esse conformarono anche la loro attività scientifica, come il domenicano Lagrange, dell’École Biblique di Gerusalemme.

La Pascendi dominici gregis si colloca sulla linea tracciata da Papa Leone XIII nel 1879 con l’enciclica Aeterni Patris (101): per rispondere adeguatamente alle sfide della cultura e della società moderna, che sembrava nascere non solo senza l’ispirazione cristiana, ma dichiaratamente contro di essa, la Chiesa aveva l’obbligo di attingere in modo creativo alla sapienza accumulata nei secoli grazie alla filosofia tomista. Tutto il Magistero e l’azione di governo di Papa san Pio X sono orientati in questa direzione. In un passaggio del suo articolo, che non nasconde insoddisfazione per l’opzione tomista del Pontefice, lo storico della Chiesa monsignor Émile Amann scrive: “Anche Pio X non smette di cercare e infine di esigere il ritorno alla filosofia (e alla teologia) tomista: lettera apostolica del 23 gennaio 1904 sull’Accademia romana di san Tommaso; lettera del 6 maggio 1907 al cardinale Richard e ai vescovi protettori dell’Institut Catholique di Parigi; insistenza speciale nel motu proprio “Sacrorum Antistitum” del 1° settembre 1910. Ma bisogna riservare una menzione speciale al motu proprio “Doctori Angelici” del 24 giugno 1914, che riguarda d’altronde solo l’Italia […] e le isole vicine. Con un tono di autorità che si ritrova appena nei documenti riguardanti il modernismo, il papa dichiara che solo la filosofia tomista è capace di presentare una sintesi soddisfacente delle verità naturali che sono a fondamento della religione cristiana” (102).

“Ciò che importa anzitutto - si legge nell’enciclica - è che la filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si debba precipuamente intendere quella di san Tommaso di Aquino [1225-1274]; intorno alla quale tutto ciò che il Nostro predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore, e se occorre, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia da tutti osservato. Se nei seminari si sia ciò trascurato, toccherà ai vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai superiori degli ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano di ben persuadersi che il discostarsi dall’Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno” (103).

Non pochi autori additano nel tomismo, “proposto” da Papa Leone XIII e “imposto” da Papa san Pio X, il più importante fattore di rinascita culturale nella Chiesa Cattolica nel secolo XX. In un contributo, per altro non del tutto favorevole alla linea assunta da Papa san Pio X nella condanna del Modernismo, leggiamo: “La crisi del Modernismo fu superata nella chiesa cattolica anche tramite un generale ritorno al tomismo. Già sotto il Pontificato di Leone XIII, con l’enciclica Aeterni Patris del 1879, si era dato impulso agli studi tomistici, che avevano trovato sviluppo particolarmente a Lovanio (Mercier), all’Institute Catholique di Parigi e all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, oltre che nelle università romane, nelle scuole domenicane e nei seminari. Questa ripresa del tomismo […] seppe ridare alla teologia cattolica un saldo sfondo filosofico e, attraverso diligenti studi storici, seppe anche portare alla riscoperta dell’autentico pensiero di Tommaso d’Aquino, purificato dalle interpretazioni posteriori. I nuovi orientamenti che scaturiranno da tale scoperta saranno destinati a portare frutto soprattutto presso i domenicani di Le Saulchoir e i gesuiti di Lione, e alimenteranno il pensiero dei maggiori teologi cattolici contemporanei” (104). Per un altro studioso, la promozione del tomismo da parte dell’enciclica fu un’operazione culturale ambigua e in definitiva non produsse risultati significativi: “Questa esplosione del tomismo, che alcuni hanno l’ingenuità di ritenere genuino, non può nascondere le vere intenzioni di chi, intriso dello spirito di san Tommaso e delle esigenze del lavoro scientifico e teologico, affronta coraggiosamente i problemi legittimamente formulati o intuiti dalla filosofia religiosa, dall’esegesi biblica e dalla storia dei dogmi. Ecco perché è indispensabile ricordare, al di là dell’antimodernismo viscerale, lo sforzo di quei domenicani che, legati a un concettualismo rappresentanzionista, vogliono riprendere i temi della fede e dell’apologetica, in grado - secondo loro - di dimostrare l’evidenza della credibilità della rivelazione. Possiamo citare, fra le altre, due opere rappresentative: La crédibilité et l’apologétique, di Gardeil (1908), e De Revelatione, di Garrigou-Lagrange [Reginald O.P. [1877-1964)] (1908), progetti che porteranno in un vicolo cieco” (105).

Qualsiasi giudizio si voglia dare di questa scelta e degli effettivi risultati apportati, non si può negare che essa rappresentò uno sforzo scientifico di notevolissima portata. Intendo, in altri termini, suffragare ulteriormente la tesi secondo cui l’enciclica, di cui nel 2017 ricorrono i 110 anni, fu promotrice di un serio impegno culturale. Inoltre, la proposta tomista ha un significato ben più profondo della ripresa dello studio di san Tommaso d’Aquino in sé stesso. Essa equivale a riaffermare, in piena coerenza con l’approccio cattolico alla Rivelazione cristiana, la naturale alleanza fra fede e ragione, l’amicizia fra filosofia e teologia. “Lanciando i suoi anatemi contro questo audace edificio anti-intellettuale e antirazionale, Pio X non ha allontanato soltanto una minaccia contro la fede cristiana, ma ha sottratto o difeso la ragione umana stessa da un suicidio insensato” (106). Il Modernismo, nel suo approccio filosofico, aveva dichiarato, con la propria posizione antimetafisica, un atto di sfiducia nelle capacità della ragione umana, il cui esercizio andava confinato all’osservazione del fenomeno. L’enciclica reagisce e indica un’altra direzione, la stessa che nel 1998 sarebbe stata ribadita da un altro grande Pontefice, il servo di Dio Giovanni Paolo II (1978-2005), nell’enciclica Fides et ratio, che, significativamente, ricorda esplicitamente l’impegno di Papa san Pio X nel respingere, all’inizio del secolo XX, indirizzi filosofici che ammettono solo un “pensiero debole”: “Anche nel nostro secolo, il magistero è ritornato più volte sull’argomento mettendo in guardia contro la tentazione razionalistica. È su questo scenario che si devono collocare gli interventi del papa san Pio X, il quale rilevava come alla base del modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista, agnostico e immanentista” (107). Nello stesso documento il Pontefice menziona il decreto Lamentabili dove rigetta la funzione regolatrice e simbolica dei dogmi, respinta pure dalla Pascendi dominici gregis: “Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo secolo, secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato e rigettato” (108). Il documento di Papa Giovanni Paolo II asserisce che questa posizione, il pragmatismo teologico, costituisce una ricorrente tentazione nel pensiero teologico. Il Magistero antimodernista di Papa san Pio X è, in definitiva, un richiamo di permanente attualità, sì che, anche in questa prospettiva, la rilettura della Pascendi dominici gregis offra non pochi motivi di valida riflessione pure e, forse, soprattutto oggi.

In definitiva, gli elementi esposti permettono di dichiarare che la teologia fu vigorosamente orientata dall’intervento dell’enciclica, ma quest’orientamento non significò che il Magistero si sia sostituito a essa. I due carismi ecclesiali, quello della ricerca teologica, che propone e sviluppa, e quello del Magistero, che discerne e purifica, rimasero complementari. Dissento perciò da quanti hanno affermato che la Pascendi dominici gregis, come pure il decreto Lamentabili, abbiano introdotto un “mostro” nella storia della teologia, una teologia del Magistero fagocitante la teologia in quanto intellectus fidei. “La minaccia all’ortodossia, avvertita dal magistero nel movimento modernista, provocò pertanto una reazione assai severa, il cui esito, a livello squisitamente teologico, fu la tendenziale assunzione in proprio, da parte del magistero stesso, della teologia. Facendo valere la propria caratteristica di norma prossima della fede e correlativamente della rivelazione, il magistero propiziò così, almeno in linea di principio, la trasformazione della teologia da “teologia della rivelazione”, quale si era auto compresa da sempre, in “teologia del magistero” (109).

 

Conclusioni

Il percorso seguito ci ha portato a individuare tre motivi significativi per celebrare i primi 110 anni dell’enciclica che Papa san Pio X pubblicò nel 1907 per condannare il Modernismo, “sintesi di tutte le eresie” (110).

Anzitutto l’intenzione e l’afflato pastorale che attraversano e caratterizzano l’enciclica, pensata e voluta come uno strumento per custodire la fede del popolo di Dio. Il deposito della fede è una riserva di speranza per tutti i credenti e non solo per essi. Il Magistero della Chiesa interviene, a volte, per proteggere questo patrimonio da interpretazioni interne al vissuto ecclesiale che possono impoverirlo o, addirittura, dissiparlo. Occorre essere grati a questo servitium veritatis e a chi lo esercita e conservarne la memoria. è questo pertanto uno dei motivi per i quali ricordiamo la Pascendi dominici gregis, opera di un Papa buono e santo.

In secondo luogo, l’enciclica è un documento di elevato valore teologico per intrinseche qualità. Soprattutto, mette in guardia gli “addetti ai lavori”, i teologi, da inevitabili rischi e tentazioni nel loro indispensabile ruolo di “pensatori della fede”. L’elenco degli errori additati nell’enciclica, la loro incompatibilità con la Rivelazione cristiana e con la grande Tradizione, è un monito che non cessa di sostenere oggi e domani quanti, a diverso livello, si attivano per rendere il Vangelo una notizia bella e buona per gli uomini e le donne loro contemporanei. L’enciclica nacque in un contesto storico-ecclesiale ben delimitato, la cosiddetta “crisi modernista”, ma, proprio per il valore paradigmatico del Modernismo come attitudine teologicamente scorretta, s’innalza oltre i confini di quel periodo e acquista un valore teologico duraturo.

In terzo luogo, essa fu, direttamente e indirettamente, promotrice di un consistente movimento culturale all’interno della Chiesa. Oggi la Chiesa intera gode del servizio di istituzioni scientifiche e fruisce degli esiti di molteplici iniziative culturali che ebbero anche in quell’enciclica e, più generalmente, nella reazione antimodernista, uno dei loro fattori propulsori. Questi e altri motivi, da noi non approfonditi nelle riflessioni condotte, ci autorizzano a ritenere la commemorazione di questa enciclica piana un avvenimento non superfluo, ma utile e opportuno, non imbarazzante, ma di cui essere soddisfatti e orgogliosi, non pericoloso ma vantaggioso e doveroso. La Chiesa è una comunità che “ricorda” e racconta incessantemente gli avvenimenti della Salvezza e la loro risonanza e approfondimento nella vita dei credenti, attraverso le generazioni che si succedono. È questa una ricchezza che cresce incessantemente e sorprendentemente. La Pascendi dominici gregis è un’espressione del Magistero pontificio che trasmette la memoria vivente e vivificatrice della Chiesa. In tale prospettiva va ricordata e apprezzata, con serena, sincera e onesta attenzione.

 

 

 


Note:

(1) Cfr. san Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, dell8-9-1907, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, pp. 206-309.

(2) Il Concilio avrebbe poi bocciato questi suggerimenti: cfr. don Joseph A. Komonchak, La lotta per il concilio durante la preparazione, in Giuseppe Alberigo (1926-2007) (sotto la direzione di), Storia del concilio Vaticano II. 1. Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959-settembre 1962, ed. it. a cura di Alberto Melloni, il Mulino, Bologna 1995, pp. 177-379 (pp. 256-262).

(3) Don Maurilio Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, p. 181.

(4) Normand Provencher O.M.I., Modernismo, in René Latourelle S.J. e don Rino Fisichella (a cura di), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella, Assisi (Perugia) 1990, p. 813.

(5) Pietro Scoppola, Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 1966, p. 360; sull’enciclica come espressione del rifiuto da parte del Magistero cattolico del pensiero e del mondo moderno, cfr. lo storico della Chiesa Michele Ranchetti (1925-2008), Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo, Einaudi, Torino 1963.

(6) Klaus Schatz S.J., Storia della Chiesa, vol. III, 2, Età moderna, trad. it., Queriniana, Brescia 1995, p. 105.

(7) Giacomo Martina S.J., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni. IV. L’età contemporanea, Morcelliana, Brescia 1995, p. 102.

(8) Pio X (1903-1914). Cenni biografici, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 1-17 (p. 13).

(9) Ibid., p. 16.

(10) André Boland S.J., Modernisme, in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique. Doctrine et histoire, vol. X, Beauchesne, Parigi 1980, coll. 1416-1439 (col. 1437).

(11) Cit. in don Franco Molinari (1928-1991), I tabù della storia della Chiesa moderna, Marietti, Torino 1963, p. 155. La diffusa convinzione che il Modernismo sia uno dei “genitori” del Concilio Ecumenico Vaticano II e del cosiddetto “spirito del Concilio” è espressa, per esempio, in don M. Guasco, Dal Modernismo al Vaticano II. Percorsi di una cultura religiosa, Franco Angeli, Milano 1991, dove sono raccolti medaglioni di figure rilevanti del cattolicesimo contemporaneo, il cui elemento comune è ravvisato proprio in una medesima attitudine nel concepire e promuovere il rinnovamento ecclesiale.

(12) Sul Modernismo esiste un’ampia gamma di opinioni fra gli studiosi. La bibliografia su questo movimento è notevolmente vasta, avendo esso attirato l’attenzione di molti ricercatori. Cfr. la nota bibliografica in G. Martina S.J., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, cit., pp. 107-117, e gli orientamenti bibliografici suggeriti in don M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, cit., pp. 199-205. Cfr. un’introduzione alla storiografia sul Modernismo, in Agostino Giovagnoli, Cultura cattolica e crisi modernista, in Augustin Fliche (1884-1951) e Victor Martin (1886-1945) (iniziatori), Storia della Chiesa, vol. XXII, 2, La Chiesa e la società industriale (1878-1922). Parte seconda, trad. it., a cura di Elio Guerriero e Annibale Zambarbieri, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, pp. 247-269. Sull’integrismo, cfr. Émile Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral. Un reseau secret international antimoderniste: La Sapinière (1909-1921), Castermann, Parigi-Tournai 1969. Cfr. una sintesi bibliografica sull’integrismo, in don Silvio Tramontin, La repressione del modernismo, in A. Fliche e V. Martin (iniziatori), Storia della Chiesa, vol. XXII, 2, cit., pp. 271-291 (p. 271, n. 1).

(13) San Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., p. 207.

(14) Cfr. Idem, Allocuzione “Accogliamo”, del 18-4-1907, in Ugo Bellocchi (a cura di), Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, vol. VII, Pio X (1903-1914), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 231-233.

(15) Cfr. Idem, Decreto “Lamentabili” sui principali errori del riformismo o modernismo, del 4-7-1907, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 772-787.

(16) Enrico Rosa S.J. (1870-1938), La condanna del modernismo, in La Civiltà Cattolica, anno 58, fasc. 1375, Roma 26-9-1907, pp. 3-13 (pp. 3-4).

(17) Canonico Roger Aubert, Pio X tra Restaurazione e Riforma, in A. Fliche e V. Martin (iniziatori), Storia della Chiesa, vol. XXII, 1, La Chiesa e la società industriale (1878-1922). Parte prima, trad. it., a cura di E. Guerriero e A. Zambarbieri, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, pp. 107-154 (p. 137); la citazione è di Pietro Chiocchetta M.C.C.J., La spiritualità tra Vaticano I e Vaticano II, Studium, Milano 1984, p. 27. Il canonico Aubert è certamente lo storico che ha meglio approfondito la figura e lazione di Papa san Pio X. Numerosi sono i suoi contributi in opere generali.

(18) Canonico R. Aubert, Pio X, un papa riformatore e conservatore a un tempo, in Hubert Jedin S.J. (1900-1980) (sotto la direzione di), Storia della chiesa. IX. La Chiesa negli stati moderni e i movimenti sociali (1878-1914), Jaca Book, Milano 1979, pp. 458-472 (p. 462-463).

(19) Ibid., p. 466.

(20) Monsignor Antonio Niero, Pie X (saint), in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique. Doctrine et histoire, cit., vol. XII.2, coll. 1429-1432 (coll. 1429-1430).

(21) Don Guido Zagheni, L’età contemporanea. Corso di storia della Chiesa. IV, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, p. 244.

(22) Don M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, cit., pp. 187-188.

(23) Don S. Tramontin, Storia della Chiesa moderna e contemporanea, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1998, p. 104. Le preoccupazioni dell’episcopato italiano, allarmato per il fenomeno in atto, sono ben documentate in Idem, La repressione del modernismo, cit., pp. 277-278.

(24) Idem, La repressione del modernismo, cit., p. 278.

(25) Cfr. ibidem.

(26) Cfr. san Pio X, Motu proprio “Sacrorum antistitum” sui provvedimenti per combattere il pericolo del modernismo, del 1°-9-1910, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 874-921.

(27) Don S. Tramontin, La repressione del modernismo, cit., p. 291.

(28) K. Schatz S.J., Storia della Chiesa, cit., pp. 103-104.

(29) Don S. Tramontin, La repressione del modernismo, cit., p. 286, nota 55.

(30) Ibid., nota 56.

(31) Cfr. P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, il Mulino, Bologna 1976, pp. XIX-XXV.

(32) Canonico R. Aubert, La crisi modernista, in H. Jedin S.J., op. cit., pp. 505-577 (p. 555).

(33) Cfr. questa tesi, in don Lorenzo Bedeschi (1915-2006), Interpretazioni e sviluppo del Modernismo cattolico, Bompiani, Milano 1975, pp. 106-108.

(34) Cfr. san Pio X, Enciclica “Editae saepe” sull’opera apostolica e dottrinale di s. Carlo Borromeo, del 26-5-1910, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 368-411 (p. 385).

(35) Idem, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., pp. 207-209.

(36) Idem, Enciclica “Editae saepe” sull’opera apostolica e dottrinale di s. Carlo Borromeo, cit., p. 385.

(37) Jules Lebreton S.J. (1873-1956), Modernisme. L’Encyclique et la Théologie moderniste, in Adhémar D’Ales S.J. (1861-1938) (a cura di), Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique [DAC], vol. III, Beauchesne, Parigi 1926, coll. 665-695 (coll. 666-667).

(38) Cfr. san Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., p. 257.

(39) Ibid., p. 211.

(40) Don L. Bedeschi, Interpretazioni e sviluppo del Modernismo cattolico, cit., p. 69.

(41) G. Martina S.J., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, cit., p. 96.

(42) Canonico [anglicano] Alfred Leslie Lilley (1860-1948), Modernism, in James Hastings [pastore presbiteriano scozzese] (1852-1922) (a cura di), Encyclopaedia of Religion and Ethics, vol. VIII, T. & T. Clark, Edinburgh e Charles Scribners Sons, New York 1919, pp. 763-768 (p. 763).

(43) Jean Rivière (1878-1946), Le modernisme dans l’Eglise. Étude d’histoire religieuse et contemporaine, Letouzey et Ané, Parigi 1929, p. 367.

(44) Ancora oggi validissima, almeno per la descrizione del Modernismo filosofico, la sintesi dell’enciclica proposta in monsignor Albert Farges, Modernisme. L’Encyclique “Pascendi”, in DAC, vol. III, pp. 638-665. Cfr. pure un riassunto dei contenuti, in Francesco Maria Bauducco S.J. (1902-1976), Pascendi, in mons. Angelo Mercati (1870-1955) e monsignor Augusto Pelzer (1876-1958) (a cura), Dizionario ecclesiastico, vol. III, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1958, pp. 90-91 (p. 90); e don M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, cit., pp. 157-163.

(45) Canonico R. Aubert, Modernismo, in Karl Rahner S.J. (1904-1984) (a cura di), Sacramentum Mundi. Enciclopedia Teologica, trad. it., vol. quinto, Morcelliana, Brescia 1976, coll. 455-467 (col. 463).

(46) K. Schatz S.J., Storia della Chiesa, cit., p. 102.

(47) J. Rivière, Modernisme, in don Jean-Michel-Alfred Vacant (1852-1901), don Eugene Mangenot (1856-1922) e monsignor Émile Amann (1880-1948), Dictionnaire de Théologie catholique [DTC], vol. X, 2, Letouzey et Anê, Parigi 1929, pp. 2009-2047 (p. 2035).

(48) R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi (Perugia) 1967, p. 295.

(49) G. Martina S.J., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, cit., p. 97.

(50) La polemica sul modernismo. L’intervento dei non cattolici, in La Civiltà Cattolica, anno 59, fasc. 1393, 26-6-1908, pp. 71-82 (p. 76).

(51) Cit. in don S. Tramontin, La repressione del modernismo, cit., pp. 282-283.

(52) Ibid., p. 283, nota 46.

(53) Don L. Bedeschi, Interpretazioni e sviluppo del Modernismo cattolico, cit., pp. 69-70.

(54) Don M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, cit., pp. 181-182.

(55) Canonico R. Aubert, Pie X (Saint), in Gérard Mathon, Gérard-Henri Joseph Baudry, Paul Guilly ed E. Thiery (a cura di), Catholicisme. Hier aujourd’hui demain, vol. XI, Letouzey et Anê, Parigi 1988, pp. 279-287 (p. 286).

(56) Anonimo, Lettere di un prete modernista, Libreria editrice romana, Roma 1908, p. 92.

(57) Heinrich Stirnimann O.P. (1920-2005), Pascendi dominici gregis, in mons. Michael Buchberger (1874-1961) (iniziatore), Lexikon für Theologie und Kirche, vol. 8, Herder, Freiburg 1963, coll. 126-127 (col. 127).

(58) San Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., p. 279.

(59) Ibid., p. 265.

(60) Ibid., p. 279.

(61) Canonico R. Aubert, La crisi modernista, cit., p. 506.

(62) Idem, Pie X, cit., p. 283.

(63) G. Martina S.J., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, cit., pp. 95-96; cfr. anche H. Jedin S.J., op. cit., pp. 551-553; e don S. Tramontin, La repressione del modernismo, cit., pp. 274-276.

(64) Cfr. Pio IX, Enciclica “Quanta cura” sulla condanna e proscrizione di gravi errori dell’epoca, dell8-12-1864, con il Syllabus, in Enchridion delle Encicliche, vol. 2, Gregorio XVI. Pio IX (1831-1878), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1996, pp. 500-545.

(65) E. Rosa S.J., art. cit., p. 13.

(66) Cfr. Rino Cammilleri, L’ultima difesa del Papa Re. Elogio del Sillabo, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2001.

(67) Cfr. Canonico R. Aubert, Il risveglio culturale dei cattolici, in A. Fliche e V. Martin (iniziatori), Storia della Chiesa, vol. XXII, 2, cit., pp. 193-245 (pp. 243-244).

(68) Idem, Modernismo, cit., col. 462.

(69) Cfr. Leone XIII, Lettera “Testem benevolentiae” sull’americanismo, del 22-1-1899, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, Leone XIII (1878-1903), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1997, pp. 1802-1823.

(70) J. Rivière, Le modernisme dans l’Eglise. Étude d’histoire religieuse et contemporaine, cit., p. 187.

(71) San Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., p. 275.

(72) Cfr. Leone XIII, Bolla Officiorum ac munerum, del 25-1-1897, in Ugo Bellocchi (a cura di), Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, vol. VI, Leone XIII (1878-1903). Parte seconda: 1892-1903, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 271-280.

(73) Cfr. Benedetto XV, Enciclica “Ad beatissimi Apostolorum Principis” sul programma del pontificato, del 1°-11-1914, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 464-495.

(74) Ibid., pp. 487-489.

(75) J. Rivière, Modernisme, cit., pp. 2045-2046.

(76) John Joseph Heaney S.J., Modernism, in New Catholic Encyclopaedia, vol. 9, McGraw-Hill Book Company, New York 1967, pp. 995-996 (p. 995).

(77) A. Boland, Modernisme, cit., col. 1437.

(78) Ibid., col. 1438.

(79) N. Provencher O.M.I., voce cit., p. 813.

(80) A. Boland, La crise moderniste hier et aujourd’hui. Un parcours spirituel, Beauchesne, Parigi 1980, p. 105.

(81) Cit. in don M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, cit., p. 16.

(82) G. Martina S.J., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, cit., p. 102.

(83) Robert Vander Gucht e Herbert Vorgrimler (sotto la direzione di), Bilancio della teologia del XX secolo, vol. II, La teologia del XX secolo, trad. it., Città Nuova, Roma 1972, pp. 13-71 (p. 18).

(84) Don M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 154-155.

(85) Don L. Bedeschi, Interpretazioni e sviluppo del Modernismo cattolico, cit., p. 73.

(86) San Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., pp. 307-309.

(87) Don S. Tramontin, La repressione del modernismo, cit., pp. 281-282, nota 40. Pare che il fallimento dell’iniziativa sia legato alle difficoltà poste dal segretario: cfr. canonico R. Aubert, Un projet avorté d’une Association scientifique internationale catholique au temps du modernisme, in Archivium historiae pontificiae, anno 16, Roma 1978, pp. 223-312.

(88) San Pio X, Lettera apostolica “Vinea Electa” sulla fondazione del Pontificio Istituto Biblico in Roma, del 7-5-1909, in Enchiridion Biblicum. Documenti della Chiesa sulla Sacra Scrittura, ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1993, pp. 290-305 (p. 293).

(89) Cfr. Idem, Esortazione “Haerent animo” al clero cattolico nel 50° della propria ordinazione sacerdotale, del 4-8-1908, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV (1903-1922), cit., pp. 788-827.

(90) Cfr. Idem, Lettera apostolica “Quoniam in re biblica” sull’ordinamento degli studi di s. Scrittura nei seminari, del 27-3-1906, in Enchiridion Biblicum. Documenti della Chiesa sulla Sacra Scrittura, cit., pp. 226-233.

(91) Idem, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., pp. 291-293.

(92) J. Rivière, Modernisme, cit., p. 2040.

(93) Canonico R. Aubert, La crisi modernista, cit., pp. 561-562.

(94) Ibid., pp. 562-563.

(95) Don S. Tramontin, La repressione del modernismo, cit., p. 286.

(96) Carlo Bricarelli S.J. (1857-1931), La riforma degli studi nei seminari, in La Civiltà cattolica, anno 58, fasc. 1369, 26-6-1907, pp. 35-53 (p. 50).

(97) Don M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, cit., p. 154.

(98) Ibid., p. 162.

(99) Don L. Bedeschi, Interpretazioni e sviluppo del Modernismo cattolico, cit., p. 109.

(100) P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, cit., p. 360.

(101) Cfr. Leone XIII, Enciclica “Aeterni Patris” sul rinnovamento della filosofia tomista nelle scuole, del 4-8-1879, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, Leone XIII (1878-1903), cit., pp. 52-93.

(102) Monsignor É. Amann, Pie X, in DTC, vol. XII, 2, p. 1729. Secondo questo studioso, il fatto stesso d’«imporre» una linea filosofica è in opposizione alla natura del filosofare, frutto di ragionamento e di accordo maturato nella discussione. Quasi come suo testamento spirituale, Papa san Pio X autorizzò la pubblicazione delle famose XXIV tesi di filosofia tomista, sulle quali cfr. Guido Mattiussi S.J. (1852-1925), Le XXIV tesi della filosofia di S. Tommaso d’Aquino approvate dalla S. Congregazione degli Studi, del 27-7-1914, Tip. Pont. Università Gregoriana, Roma 1947.

(103) San Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., p. 291.

(104) Don Franco Ardusso (1935-2005), Giovanni Ferretti, Anna Maria Pastore e Ugo Perone, La Teologia contemporanea. Introduzione e brani antologici, Marietti, Torino 1980, pp. 12-13.

(105) Dom Evangelista Vilanova O.S.B. (1927-2005), Storia della teologia cristiana, vol. 3, Secoli XVIII, XIX e XX, trad. it., Borla, Roma 1995, p. 477. Dissento dalla premessa e dalla conclusione.

(106) Monsignor A. Farges, Modernisme. L’Encyclique “Pascendi”, cit., p. 665.

(107) Giovanni Paolo II, Enciclica “Fides et ratio” sui rapporti tra fede e ragione, del 14-9-1998, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 8, Giovanni Paolo I. Giovanni Paolo II (1978-1998), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, pp. 1808-2001 (p. 1907).

(108) Ibid., p. 1983.

(109) Monsignor Piero Coda e don Nicola Reali, Statuto e metodo della teologia, in don Giacomo Canobbio e monsignor P. Coda (a cura di), La Teologia del XX secolo. Un bilancio, vol. 1, Prospettive storiche, Città Nuova, Roma 2003, pp. 11-87 (p. 20).

(110) San Pio X, Enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, cit., p. 277.

 

 


Fonte: Roberto Spataro S.D.B. in Alleanza Cattolica

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