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L’unione coniugale tra Margherita Sanson e Giambattista Sarto

 

 

L’unione coniugale tra Margherita Sanson e Giambattista SartoMargherita Sanson (al centro, seduta) attorniata dai famigliari sul cortile di casa (epoca: Mons Giuseppe Sarto, vescovo di Mantova)Margherita convola a nozze con Giambattista Sarto a soli vent’anni, mentre il suo sposo ne ha quaranta.

Quasi una generazione di differenza: lei nata ancora sotto il vigente codice napoleonico (1813) e lui invece durante le raccolte di leggi e consuetudini della Serenissima (1792) che dalla Rivoluzione francese in poi sembra non essere stata minimamente toccata.

Liberté, Fraternité, Egalité erano concetti sconosciuti sia per il clero che per la classe al potere che sopravviveva di ingenti risorse accumulate dagli avi ma ormai verso una trasformazione socio politica che travolgerà lo stesso Veneto.

Nobili che si trasformano in filo napoleonici, per poi assoggettarsi agli Asburgo, sporadiche proteste che venivano sopite con le armi da fuoco (“sparavano in faccia ai rivoltosi, provocando ferite e infezioni inguaribili”) ma sempre in uno stretto legame tra l’altare e la patria.

Essere poveri nell’entroterra veneto era la regola, possedere qualche ettaro di terra ed avere degli animali già un privilegio. In più se sapevi leggere e fare la tua firma per una comunità di villici poteva rappresentare uno status symbol non indifferente.

Fu il caso di Giambattista Sarto, cursore e possidente di Riese che si scelse una giovinetta, tale Margherita Sanson, “cucitrice e illeterata”, per iniziare finalmente quella che si direbbe oggi una nidata di figli.

Infatti, forse per sorte divina, come si usa da queste parti che tutte le persone fortunate sono baciate dalla Provvidenza, Margherita mise al mondo undici figli (non dieci!) di cui tre perirono, sei femmine due maschi vissero abbastanza a lungo.

I Sarto sono longevi, “una razza Piave” come certi politici trevigiani gridano in giro. Cosa se ne facesse di tante femmine in casa, non ci riguarda perché il povero Giobatta morì nel 1852 a sessant’anni esatti di “pleurite fulminante”, lasciando sulle spalle della consorte trentanovenne il fardello della famiglia numerosa.

Una vedova che per le statistiche dell’epoca doveva aggirarsi ad un 38% dei casi, tra vedove bianche, cioè di uomini espatriati o fuggiti, in carcere per furti e rissa, e vedove per morte del congiunto. Non era poi così drammatico avere in casa tante femmine perché ad ognuna veniva data una mansione.

 

Come avrà conosciuto la giovane ‘Margarita’ diciannovenne?

Non ci sono testimonianze precise sul matrimonio, a parte i dati del registro parrocchiale di Riese. L’unica cosa certa che Giovambattista Sarto, essendo cursore ed abitando in centro, fra i villigi (abitanti) era abbastanza noto per il servizio pubblico che svolgeva. Una specie di pubblico ufficiale, ereditato dal padre, che sapeva leggere anche il tedesco, per notificare ai residenti editti, verbali e riscuotere sanzioni.

Era munito di una trombetta quando s’incamminava nelle contrade perché all’epoca non esistevano manifesti murali, la gran parte della gente era analfabeta.

 

La scelta dello sposo, o meglio chi decideva?

A quei tempi, le unioni matrimoniali “si costruivano” per conoscenze dirette intra-familiari o indirette. Non tutte le femmine – che superavano di gran lunga i maschi – potevano ambire ad un matrimonio. [1]
Le conoscenze si facevano soprattutto alle feste del patrono o in occasioni solenni.

 

Bastava uno sguardo?

“Le motivazioni individuali della scelta del proprio compagno erano spesso di carattere sociale, guidate talvolta dalla necessità di trovare una sistemazione economica per sé e per la famiglia. Aiutano nella ricerca della persona adatta i mediatori, quelli che conoscono meglio la gente degli altri villaggi, soprattutto nei casi in cui un vedovo o una vedova si trovino nella necessità di costituire nuovamente un nucleo familiare, per reggere alle mille difficoltà della vita quotidiana”. [2]

Data la differenza di età tra i due futuri sposi, vien da pensare che Giovambattista Sarto abbia puntato sulla giovanetta già qualche anno prima di chiedere alla madre vedova il permesso di portarla sull’altare. La sistemazione economica sarà stata la motivazione principale, non certo un amore folgorante verso un uomo dall’aspetto burbero e – si scopre dalle testimonianze delle figlie – con atteggiamenti autoritari.

Si dice che fosse stato un padre un po’ burbero. È noto che si oppose alla scelta fatta da suo figlio Giuseppe che voleva continuare il ginnasio a Castelfranco per poi entrare in Seminario, sospinto dalla stessa Margherita, dal parroco don Tito Fusarini e dal cappellano don Pietro Jacuzzi che “fecero di tutto” per convincerlo.

 

Il codice ecclesiastico.

Come abbiamo visto, il matrimonio era regolato dal codice ecclesiastico, dato che il codice austro-ungarico in vigore nel 1833 “inglobava nei suoi dettami il diritto canonico”.

Ci si sposava in chiesa con testimoni e con il consenso dei genitori (se viventi) fino al compimento del 24° anno di età, per lui e del 21° per lei. La deroga per un’età diversa – il caso della diciannovenne ‘Margarita’ – doveva essere formalizzata dalla competente autorità ecclesiastica di Bassano del Grappa. È probabile che la pratica sia stata espletata dallo stesso Giovambattista per le sue conoscenze.

 

Le tre fasi di Margherita.

Si possono delineare tre fasi di Margherita: nei primi vent’anni di matrimonio (1833-1852) è alle dipendenze del padrone-marito, nella seconda si ritrova vedova con seri problemi di mandare avanti la famiglia dal 1852 al 1860, nella terza fino alla sua morte (1894) con minore carico sulle spalle per il soccorso prestato da terzi, e  soprattutto dal figlio Mons. Giuseppe che si prenderà a carico le sorelle.

L’impressione che abbiamo non è mai di angoscia o di sconfitta.

Si direbbe anzi che quando c’è l’accentuazione dei pericoli, delle sofferenze, delle disgrazie Margerita Sansòn non faccia che evidenziare ulteriormente il coraggio, la resistenza, la sopportazione che una madre di famiglia si sarà trovata.

 

 

 


Note:

  1. La maggior parte rimaneva “zitella” oppure “andava monega”. Tradizione quest’ultima assai diffusa nel Veneto. Le suore occuperanno posti riguardevoli nell’istruzione, nel sociale e nel sanitario fino al dopoguerra degli anni Cinquanta del secolo scorso. In seguito all’emancipazione della donna e al crescente spopolamento delle campagne ci sarà un netto ridimensionamento della vocazione femminile. Secondo alcuni studi anagrafici nel Veneto asburgico la femmina superava punte del 56% rispetto al maschio. Se prendiamo l’esempio della famiglia Sarto era formata da sei donne e due maschi, cioè la presenza femminile era tre volte tanto quella maschile. Questo è un dato che fa capire quanto sia rimasta soffocata la condizione femminile in una società prettamente rurale che solo alla fine dell’800 vedrà le prime industrie manifatturiere con impianti a vapore. Non a caso Mons. Bepi Sarto, in qualità di Direttore Scolastico a Salzano e poi come vescovo di Mantova e Patriarca di Venezia avrà sempre un particolare riguardo per la condizione femminile (formazione scolastica e impiego). E’ a tutti notorio aver sollecitato la ripresa dei laboratori femminili di ricamo a Burano o dell’impiego nella filanda dei nobili israelitici Jacur.
  2. Ursini, Marazzato, p. 209.

 

 


Fonte: A. Miatello in AidaNews

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