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P. Alfonso Orlini: all'elezione di Pio X, in tutta l'Istria fu un delirio

 

 

Padre Alfonso OrliniP. M. Alfonso M. Orlini, Ministro Generale OFMConv (tratto dal volume Padre Alfonso Orlini – Istriano di Cherso, 1959)Nato in una delle isole del Carnaro, “isole di sasso che l’ulivo fa d’argento” cantate da D’Annunzio, sacerdote nel 1909, si laureò a Friburgo (Svizzera) in Teologia e all’Università di Padova in Filosofia e in Lettere con tesi sulla venezianità di Cherso. Alla storia della sua piccola patria dedicherà un libro, in cui descrive la crescita dell’isola Nell’amplesso materno di Roma e con Venezia madre: “Se Roma fu la genitrice della nostra civiltà, Venezia ne prese amorevolmente il posto creando tra noi e lei vincoli di affinità durati per lunghi secoli e resistenti ancor oggi nel costume, nella parlata, nel sangue stesso”. È un libro scritto nel 1961, quasi a celebrare, da esule, il centenario dell’Unità d’Italia, la Patria cui appartenevano le terre ‘redente’ nel 1918 e perdute nel 1947.

Con quale spirito, da Cherso sotto l’Austria, il fraticello guardasse alla Città madre di là dal mare, si può intendere da un ricordo di gioventù espresso nel ‘54, dopo la tragedia dell’Esodo. In una conferenza, dovendo parlare di Pio X, allora elevato alla gloria degli altari, gli venne in mente l’emozione provata all’annunzio della sua elezione al soglio pontificio, nel lontano 1903. L’annunzio commosse i veneziani, era il loro amato Patriarca, e “per tutta la mia terra d’Istria vi fu addirittura un delirio. Il giovane Orlini, che dal Patriarca era stato cresimato, mise in versi l’evento: “Immaginavo tutti i venerati e venerandi vecchi leoni alati delle porte e torri venete dell’Adriatico, improvvisamente distaccarsi dalle pareti, spiccare il volo e, in una strana scorribanda aerea, sul mare amarissimo, lanciare possenti grida di gioia come per la ricuperata libertà veneta”.

Padre Orlini sentiva che la Serenissima, erede della romanità in cui era immersa la costa adriatica orientale dalla Pola di Augusto alla Spalato di Diocleziano, aveva assolto una missione storica, civile e religiosa, romana e cattolica: salvare l’Occidente dallo scisma di Bisanzio e dalla minaccia dell’Islam. Dal XIII secolo grazie alla venezianità adriatica fiorì il francescanesimo con i conventi sulla via verso l’Oriente. Dal convento di Cherso, città che allo spirito cristiano univa la cultura italiana umanistica (patria del filosofo umanista Francesco Patrizi e del linguista Giovanni Moise nell’Ottocento), erano già pervenuti al vertice dell’Ordine serafico due Ministri Generali, Antonio Marcello De Petris (XVI sec.) e Fra Bonaventura Soldatich (1879-1891).

Sull’esempio di Soldatich, che dové lottare sia contro le deviazioni interne al mondo francescano richiamandolo alla carità e alla povertà, sia contro i danni delle soppressioni italiane, e napoleoniche, si formò frate Alfonso, nel chiostro dell’isola nativa e poi nel collegio di Camposampiero, il luogo scelto da Sant’Antonio di Padova, “il più possente artefice dello spirito e dell’opera di San Francesco d’Assisi”. In quel collegio Padre Orlini mostrò fin da giovane una tempra notevolissima di predicatore e oratore, colto e ricercato, di animo fiero e battagliero. Da Padova, italiana dal 1866, centro della provincia francescana che abbracciava l’Istria e i conventi dalmati, guardava con spirito irredentista alla piccola patria di là dal mare.

Durante la Grande Guerra mostrò una capacità organizzativa straordinaria nella direzione de “Il Messaggero di S. Antonio”, bollettino della comunità del Santo, e della Biblioteca antoniana. Fu poi Custode del convento di Pirano, ove organizzò Sindacati di mestiere e Cooperative per opporsi a manovre antitaliane. A Venezia, presso la Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, divenne figura di primo piano nel campo religioso e culturale. Eletto nel 1924 Ministro della Provincia patavina, e, secondo la profezia del frate cappuccino fra Leopoldo di Castelnuovo di Cattaro (oggi Santo), sua guida spirituale, raggiunse poco dopo il vertice dell’Ordine.

 

Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali (1924-1930)

A 37 anni era, nella storia dell’Ordine, il più giovane Ministro Generale, 110° erede del Padre Serafico. Fu il Generale dei giovani, per lo sviluppo dato ai Collegi, e il Generale delle Missioni, per l’incremento dato alla “Crociata Missionaria” con l’apertura delle missioni in Cina, in Africa, e, nel 1930, in Giappone grazie a Padre Massimiliano Kolbe, oggi Santo, fondatore della Milizia dell’Immacolata. Il suo generalato fu anche contraddistinto da un’infaticabile opera di recupero di conventi e chiese, che a seguito delle soppressioni erano in stato di abbandono o usate per altri scopi. Seppe così ridare vigore a tutto l’Ordine.

Va ricordato in particolare come Generale del Sacro Convento e del Centenario Francescano (1926), per aver ottenuto dal governo italiano la restituzione del convento di Assisi, “Caput et Mater totius Ordinis Fratrum Minorum”. Era questa da decenni una questione intricatissima, giacché nel Sacro Convento, sottratto con le leggi eversive dallo Stato italiano, si era istituito nel 1875 il Collegio Convitto Nazionale “Principe di Napoli” che aveva come scopo l’educazione morale, intellettuale, fisica e professionale degli orfani degl’insegnanti elementari italiani, e aveva al suo interno le classi elementari, le tecniche ed altre classi superiori.

Padre Orlini, anticipando la Conciliazione fra Stato e Chiesa, riuscì a mettere d’accordo le parti in causa: la Santa Sede, che aveva delegato alla questione il Conte Maggiorino Capello, il Governo, ossia Benito Mussolini, il Ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele, il Municipio di Assisi, e l’Associazione Maestri elementari. Non bastavano però i contributi finanziari del Vaticano e dello Stato per costruire l’imponente, e costosissimo, nuovo edificio per il Collegio, e Padre Orlini raccolse fondi anche in terra d’America, liberando così il Sacro Convento. E il Convitto restò ad Assisi.

La liberazione del Sacro Convento e il nuovo Convitto. Il Convitto, istituzione nazionale nata da un’idea dello storico assisano Antonio Cristofani e del preside Raffaello Rossi, da anni rischiava la chiusura, o il trasferimento fuori dall’Umbria; cosa che sarebbe stata “la rovina completa di Assisi”, temuta dal nuovo Sindaco di Assisi, Arnaldo Fortini, che nel 1923, in una lettera al Governo, sosteneva che Assisi da circa 50 anni “ha indirizzato tutta la propria attività economica e morale, facendo sacrifici finanziari enormi, all’incremento di tale istituzione e alla formazione in Assisi, priva di qualsiasi altra risorsa, di un centro intellettuale di cultura”.

Con l’azione sinergica di Padre Orlini la Città di Assisi, nel 1927, ebbe salva l’istituzione, potenziata di molto, e, alla conclusione dell’anno centenario francescano che vide un grande afflusso di pellegrini da tutto il mondo, riconsegnò ai figli di Francesco la dimora originaria dell’Ordine e tutto il complesso monumentale con il Santuario e il Santo Sepolcro del Serafico Patriarca, fatto che suscitò il giubilo di tutta la cristianità.

L’Ordine aveva ripreso possesso del Sacro Convento, e due anni dopo, nel 1929, il Papa Pio XI celebrava il suo Giubileo Sacerdotale. Era l’anno del Concordato Lateranense che riconosceva l’appartenenza giuridica alla Santa Sede di tutto il complesso monumentale di S. Francesco. Padre Orlini volle allora offrire ai successori di Pietro, a cominciare da Papa Ratti, un ambiente regale, adatto a ricevimenti e convegni, e fece trasformare un’ampia sala del Convento in Salone Papale. Sul soffitto si può vedere il suo stemma generalizio, con un Leone di San Marco in moeca (di fronte): con la destra sul libro aperto con il “PAX TIBI MARCE” e con la sinistra che regge una spada, a evocare Lepanto, vittoria della cristianità cara al cuore marciano del frate chersino. Dalla madre, che ogni 25 aprile, festa di San Marco, lo accompagnava al cimitero, insieme ai fratelli, per mettere i fiori sulla tomba del Leone, sepolto dai chersini dopo la caduta di Venezia del 1797, aveva imparato la storia della sua gente.

 

Il ritorno a Padova nei luoghi del Santo

FORTIS EST ET IPSE AMOR: è forte anche lo stesso amore. Il motto che compare nello stemma generalizio sta a precisare che la forza non è quella, bruta, della spada, ma quella dell’amore, con il quale si vuole portare al mondo il Vangelo di Cristo. Una perenne linfa di questa forza, che alimenta il suo spirito apostolico, Orlini la trova nelle opere, nelle parole, nella vita, mistica e battagliera, del Santo più popolare al mondo, Antonio di Padova. Lì ritorna dopo il sessennio di generalato, e lì vorrà essere sepolto. È lui che nella Basilica del Santo, sede papale come quella assisiate, celebra nel 1931, settimo centenario antoniano, la Tredicina, le 13 giornate di preghiera che precedono la ricorrenza del Transito.

In quei discorsi “pieni di luce di verità”, scriveva il grande studioso del francescanesimo Giuseppe Abate, non c’è solo “dottrina, eleganza e nobiltà di forma” ma anche “praticità di applicazione appropriata alla vita religiosa dei nostri tempi”. Orlini, infatti, vedeva analogie tra i tempi suoi e la profonda crisi politica e morale, sociale ed economica del XIII secolo. Ripensava così alla forza titanica di Antonio, che, vestendo il bigio saio nella povertà evangelica sposata da Francesco, intese unirsi più intimamente a quel Gesù cui si era consacrato con vincolo di perpetuo amore, e proseguire l’opera riformatrice del Serafico tesa al trionfo dell’idea cristiana.

Sant’Antonio incarnò l’ideale francescano di contemplazione e azione. Alla regola benedettina ora et labora, dove il lavoro manuale e intellettuale ha il compenso equilibratore della contemplazione, si aggiunge l’entusiasmo dell’apostolato. Da Olivaes in Portogallo a Monteluco di Spoleto, dall’eremo di Montepaolo a Brive, fino alla piccola cella di Camposampiero, Antonio è La fiaccola sotto il moggio, che una volta posta a far luce Sul candelabro, sa affrontare i nemici della Chiesa con straordinario vigore, con un’eloquenza gagliarda, tanto da esser chiamato il martello degli eretici.

In parallelo con i movimenti ereticali del XIII secolo Padre Orlini vedeva i pericoli che minacciavano la cristianità nel suo tempo. Da qui la sua attenzione alla civiltà di Malta, terra che accolse Paolo di Tarso in tempi di persecuzione, e che col governo, guerriero e mistico, dei Cavalieri gerosolomitani, fu baluardo del cristianesimo nel cuore europeo del Mediterraneo, respingendo il grande assedio turco pochi anni prima della vittoria nelle acque di Lepanto (1571). A Malta Orlini fu inviato dal Papa in missione segreta, nel 1930, quando la politica anticlericale (e antitaliana) del governatore dell’isola metteva in crisi i rapporti fra Santa Sede e Corona britannica colpendo la vivissima religiosità cattolica di quel popolo, legato alla Chiesa di Roma e a una dozzina di ordini religiosi, primo dei quali, storicamente, fu quello francescano conventuale.

Parlando ai Maltesi, nel 1960, Padre Orlini auspicava un’analoga vittoria cristiana contro il nemico del tempo suo, che si chiamava bolscevismo, marxismo, comunismo: “La negazione di Dio”. Conosceva quel pericolo per i brevi periodi trascorsi in gioventù nel convento della dalmata Sebenico, e poi nei tre anni a Pirano d’Istria. Negli anni ’60 bruciavano ancora nel cuore del frate le ferite del tragico esodo dei fratelli istriani, fiumani e dalmati, cacciati dalle loro terre, alla fine della 2a guerra mondiale, dalla ferocia slavo-comunista giunta sulle sponde dell’Adriatico orientale.

 

Presidente dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia (1948-1951)

“La sciagurata guerra del 1939-45 tragicamente sboccata nella disfatta generale della Patria, ebbe per noi le peggiori e, ad occhio umano, irreparabili conseguenze”. Così in Cherso inizia a raccontare la Tribulatio magna della piccola patria: arresti, deportazioni, saccheggi, martiri. Una città in cui ben il 97% della popolazione “ha optato per l’ITALIA preferendo l’esilio alla schiavitù!”. Quale altra città d’Italia, si domandava Orlini, fu capace di tanto amore alla Patria? “In verità io dico: un grande rogo resta acceso sul Carnaro di Dante ed è inestinguibile!”. Con il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 che consegnava alla Jugoslavia l’Istria, Fiume e Zara, alla tribolazione si aggiungeva un assillo: “È spaventoso pensare che un Trattato firmato da italiani sanzioni tanto enorme ingiustizia… tanta esecranda offesa alla Religione”.

Così scriveva sulla Difesa adriatica, il periodico che era una sua creatura, voce unitaria degli esuli nel periodo della sua Presidenza nell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (1948-1951). Riconosciuto e amato come capo spirituale dei trecentomila esuli, fu chiamato al timone dell’ANVGD, e non si limitò a sostenere i fratelli, privati di tutto, sul piano morale e materiale – li chiamava “carne della mia carne, ossa delle mie ossa” – ma, soffrendo con loro, si adoperò per tenere unite le comunità disperse su tutto il territorio nazionale. C’è la sua mano anche nella costituzione del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, con una parrocchia retta dai francescani conventuali di Padova e con una Chiesa ‘adriatica’ intitolata a San Marco.

Chiamò a dirigere l’Ufficio Assistenza dell’ANVGD un giovane frate di Neresine, Padre Flaminio Rocchi, che per 55 anni trasformò il suo sacerdozio in una missione volontaria di aiuto ai profughi. Oltre ai religiosi che subirono il martirio, va ricordato un altro francescano chersino, Monsignor Raffaele Radossi, vescovo di Pola e Parenzo dal 1942, che gridò il suo sdegno contro i bombardamenti degli alleati, gli infoibamenti degli slavi, la strage di bambini sulla spiaggia di Vergarolla. Subì un attentato mentre andava a benedire le salme esumate da una Foiba. Esule, sarà per vent’anni arcivescovo di Spoleto.

Padre Orlini fece sentire la sua voce tonante nei teatri di Trieste, Gorizia, Milano e Roma. E con estrema energia si rivolse anche ai potenti rivendicando un’azione di giustizia. Ad Alcide De Gasperi, primo ministro della neonata Repubblica, che aveva firmato quel Trattato, lanciò nel 1951 un ultimo appello perché impedisse al tavolo dei vincitori “il turpe mercato”: che non fossero “buttati altri brandelli di sanguinante carne giuliana, per servire da baratto ad assai poco puliti interessi internazionali”. E chiese invano che ai cittadini giuliano-dalmati fosse concesso, nei crismi della democrazia e rispettando il principio di autodeterminazione dei popoli, enunciato da Wilson nel 1919 e sancito dalla Carta delle Nazioni Unite nel ‘45, di esprimere la propria volontà in un libero plebiscito.

Non aveva però mai perso la speranza. “Il fine cui dobbiamo mirare con tutti i nostri sforzi è il Ritorno. Volerlo, volerlo sempre, volerlo fermissimamente. Senza compromessi, incrinature, rinunzie. Volerlo per la storia di domani che ancora si svolgerà sul nostro mare e sulle nostre coste”. È un passaggio del discorso pronunciato nella Chiesa di Ronchi dei Legionari per commemorare il quarantennale dell’impresa fiumana di D’Annunzio, e nel trentennale aveva celebrato la Messa all’interno del Vittoriale, sulla tolda della nave “Puglia”. Insignito nel ruolo d’Onore dei Legionari del Vittoriale, nel ’59, celebrò a Roma, nel ’60, un rito in memoria dei Caduti del Natale di sangue: “Ricordiamo come la bella ed eroica Fiume, dopo gli scrosci delle malaugurate cannonate caine di quel triste Natale, dagli squarci dei muri crollati, dalla polvere e dal fumo, sorse assai più bella qual nuovo lucente cherubino a indicare la via smarrita all’intera Nazione”.

Padre Orlini fu dunque un combattente della Chiesa e un combattente della Patria. Nelle sue parole: “È stato sempre nel mio stile di vita amare nell’Italia Dio e servire Dio per una Patria cattolica che è quanto dire centro del mondo”. L’amore per la patria terrena era senza ombra alcuna di pregiudizio etnico. Negli anni tempestosi in cui fu Presidente dell’ANVGD, ricevette due commissioni di slavi dalla Dalmazia e dalla Croazia. A essi, come scrisse nel ’61 in Novissima verba, ricordò “le profonde affinità che li legavano agli italiani con i quali per oltre un millennio vissero ed operarono nella più grande concordia fino a quando non convenne ad altri di seminare fra noi la discordia”.

Pensando al modello di Venezia che creò l’unità dei due popoli sulla sponda orientale adriatica, guardava avanti, alla caduta del comunismo: “Chi allora ci potrà impedire di ritornare insieme, con le rispettive autonomie, ma nel complesso d’una grande Nazione interamente Cattolica, destinata ad unire le genti diverse nell’unità della Fede?”. Guardava avanti pensando al modello veneziano: “Possa su quello ispirarsi la nostra storia di domani!”

Nel 50° anniversario della sua consacrazione sacerdotale (1959) si sono stretti intorno a lui, nella Basilica del Santo, per onorarlo con affetto e riconoscenza, molti profughi dispersi in tutta l’Italia. Un comitato giuliano-dalmata curò un volume di testimonianze: Padre Alfonso Orlini – Istriano di Cherso. La sua Difesa adriatica lo festeggiò illustrandone l’opera e la personalità, la vasta e profonda cultura umanistica, l’oratoria travolgente, la vocazione apostolica vissuta con totale adesione all’ideale francescano, che viveva con grande rigore. Padre Flaminio Rocchi, lo definì Un Sacerdote crociato: “alla base della sua polemica e del suo entusiasmo c’è sempre un solidissimo fondamento dottrinale e un grande cuore del Carnaro”. Un simile frate – riconosciuto “figura di grande spicco nell’Ordine Serafico” sul necrologio ufficiale scritto nel 1972 dal Ministro Generale Padre Vitale Bommarco, anche lui di Cherso – non si può né descrivere, né dipingere, secondo Padre Rocchi, ma soltanto “si può scalpellarlo nel duro nodo di un olivo chersino”.

 

 

 


Fonte: Paolo Anelli in Val di Noto Magazine

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